Per comprendere come i romani annichilirono la potente falange macedone, regina dei campi di battaglia per centinaia di anni, occorre prendere in considerazione le tattiche di battaglia della fanteria dei due eserciti, basate su principi totalmente diversi e che alla fine dei conti risultarono favorevoli ai romani.
FANTERIA MACEDONE
Dopo la sua esperienza tebana, Filippo II, padre di Alessandro Magno, attuò una radicale riforma dell’esercito introducendo quella falange macedone che oggi rientra nel nostro immaginario, superando di fatto il classico modello della falange oplitica.
- i Pezeteri erano la spina dorsale dell’esercito macedone, la fanteria pesante che formava la falange e che veniva posta al centro dello schieramento. Essi erano armati con una picca, chiamata sarissa, lunga 5-7 metri ed uno scudo di piccole dimensioni fissato con una cinghia alla spalla sinistra, in modo da permettere al soldato di impugnare la pesante sarissa con entrambe le mani. Essi venivano disposti in formazione rettangolare, con gli uomini delle prime cinque file che tenevano puntate le sarisse orizzontalmente verso il nemico, formando una selva di picche quasi impenetrabile. Gli uomini delle file più indietro invece tenevano le picche in posizione verticale, in modo da ostacolare la traiettoria dei proiettili nemici, altrimenti letali per i pezeteri ingombrati dal loro armamento.
Come è possibile notare dall’immagine qui sotto, il muro di picche era in grado di tenere a distanza il nemico e di spezzarne la carica. I nemici che superavano le picche della prima fila macedone, venivano “incanalati” tra le aste di queste e diventavano bersagli fissi per le sarisse delle file retrostanti.
- Gli Ipaspisti, ovvero “portatori di scudo” erano invece quei corpi di fanteria d’élite posti ai fianchi della falange, in modo tale da proteggerla da eventuali attacchi laterali, essendo essa estremamente vulnerabile in quei punti. Questi uomini avevano un armamento simile agli opliti (scudo aspis, corazza, schinieri, elmo, spada e lancia leggermente più lunga di quella in uso ai greci), in modo da garantire una maggiore flessibilità rispetto ai compagni nel centro dello schieramento.
FANTERIA ROMANA
Prenderemo come esempio la fanteria romana al tempo delle terza guerra macedonica ( 171 a.C. - 168 a.C. ), in cui si svolse la battaglia “simbolo” della superiorità tattica dei romani rispetto ai macedoni, la battaglia di Pidna. La fanteria del tempo era suddivisa in Hastati, Principes e Triarii, anche se per vari fattori evolutivi, queste differenze andavano sempre più assottigliandosi. In ogni caso per il discorso in questione occorre sapere che l’esercito romano era organizzato con la suddivisione della legione in manipoli, ovvero in più piccole unità tattiche elementari di 120 uomini (60 per i Triarii). L’ordine di battaglia basilare era l’acies triplex, ovvero una formazione su tre linee, ognuna di 10 manipoli distanziati tra loro, di cui la prima era formata dagli Hastati, la seconda dai Principes e la terza dai Triarii.
Dopo aver tracciato in linee molto generali la differenza tra le fanterie dei due eserciti salta subito all’occhio un qualcosa di molto importante e cruciale per il nostro discorso. I romani, avevano una organizzazione tattica tutta incentrata sulla flessibilità e la manovrabilità delle truppe, appunto divise in manipoli, i quali garantivano un elevato grado di mobilità in ogni situazione e su ogni terreno, come impararono a proprie spese durante le guerre sannitiche.
Lo stesso non poteva dirsi per la falange macedone, la quale trovava la sua forza nella compattezza della formazione. Un cedimento in qualche punto dello schieramento o la mancanza di coordinazione avrebbe potuto mandare in frantumi l’utilità della falange.
Fu proprio ciò a determinare in massima parte la superiorità tattica dei romani. Semplicemente, con la loro organizzazione flessibile erano in grado di mandare in “tilt” la falange aggredendola laddove questa risultava più debole o meno compatta.
Basti l’esempio della battaglia di Pidna del 168 a.C. considerata quale lo scontro simbolo del tramonto della falange in luogo della superiorità romana.
In questa battaglia il re macedone Perseo stava inizialmente vincendo lo scontro. Si racconta che la compatta falange avanzò facendo strage di Peligni e Marrucini, bellicosi alleati italici dei romani, i quali coraggiosamente ma invano tentarono di mozzare le sarisse macedoni con le spade o di strapparle al nemico con le mani.
A quel punto il comandante romano, Lucio Emilio Paolo, ordinò la ritirata dei suoi uomini sul monte Olocro. Perseo, fomentato dall’iniziale successo, spedì la sua falange all’inseguimento commettendo un errore fatale. Infatti la rigida falange, inerpicatasi sul terreno scosceso ed irregolare del monte finì per scompattarsi fatalmente. La macchinosa falange era ora in crisi e mostrò tutta la sua vulnerabilità. Emilio Paolo se ne rese conto e fu a quel punto che raggruppò i manipoli in vari punti del territorio collinoso, distribuendoli opportunamente nei punti in cui la falange macedone era più in difficoltà. Ordinò poi l’attacco in quei punti prima indicati, sfruttando a pieno la flessibilità del suo esercito e sbaragliando la falange macedone, fortemente inferiore nel corpo a corpo rispetto ai romani armati di scudi oblunghi e spade corte, essendo le loro sarisse di tremendo intralcio.
Non ci fu scampo per i macedoni, i quali in meno di due ore lasciarono sul campo 20.000 morti a fronte dei 100 morti per i romani (o almeno così riportano le fonti di parte).
