venerdì 7 ottobre 2022

La “Porta dell’Inferno” non era magia, ma scienza: svelato il segreto letale del Plutonio di Hierapolis

 

In un angolo polveroso dell’antica Anatolia, lì dove sorgevano le rovine maestose della città greco-romana di Hierapolis, la leggenda di un portale per gli inferi ha sfidato per secoli la comprensione umana. Un luogo tanto temuto quanto venerato, descritto dagli storici antichi come dimora di poteri oscuri, in grado di uccidere ogni essere vivente che osasse avvicinarsi. Ma oggi, grazie alla scienza, il velo di mistero che avvolgeva la cosiddetta “Porta dell’Inferno” è stato finalmente sollevato.

Il “Plutonio” – così era conosciuto il santuario dedicato al dio romano degli inferi, Plutone – altro non era che una grotta incastonata alla base delle gradinate di un teatro antico, da cui esalavano fumi mefitici capaci di soffocare qualsiasi animale offerto in sacrificio. Eppure, i sacerdoti del culto, gli eunuchi di Plutone, sembravano in grado di attraversare il luogo indemni, come se protetti da una forza divina. O almeno così raccontavano i cronisti dell’epoca, come lo storico greco Strabone, che testimoniava la morte istantanea di tori al contatto con quei vapori infernali, mentre i ministri del culto ne uscivano illesi.

Oggi, la spiegazione arriva da un gruppo internazionale di scienziati guidati dal vulcanologo tedesco Hardy Pfanz, dell’Università di Duisburg-Essen, che ha analizzato le emissioni del sito con strumenti di misurazione moderni. I risultati parlano chiaro: la grotta sorge sopra una fessura geotermica attiva, da cui fuoriesce anidride carbonica (CO₂) di origine vulcanica in concentrazioni letali. E il comportamento di questo gas spiega perfettamente la “magia” dei riti antichi.

La CO₂ è più pesante dell’aria e, in assenza di vento o turbolenze termiche, tende ad accumularsi al suolo come una nebbia invisibile. Le rilevazioni effettuate mostrano che la concentrazione raggiunge il picco letale all’alba: nei primi 40 centimetri dal terreno, la saturazione può superare il 35% dell’aria, sufficiente a provocare la morte per asfissia in pochi minuti. Gli animali utilizzati nei sacrifici – in genere tori o uccelli – crollavano rapidamente, spesso tra le acclamazioni della folla, convinta di assistere a un prodigio divino.

In realtà, si trattava di un effetto perfettamente naturale, ma non per questo meno spettacolare. “I sacerdoti sapevano, almeno empiricamente, quando entrare e uscire dal Plutonio,” spiega Pfanz. “Erano più alti degli animali, spesso salivano su basamenti di pietra per elevare la loro posizione, e conoscevano il momento in cui il gas era più o meno pericoloso.” Di giorno, con l’aumento della temperatura dovuto al Sole, la CO₂ si disperdeva parzialmente, rendendo l’area più sicura per l’uomo.

Ma non tutti gli studiosi sono concordi sull’interpretazione “razionale” dei rituali. L’archeologo Francesco D’Andria, dell’Università del Salento, che ha riscoperto il sito nel 2011, invita alla cautela: “Abbiamo trovato numerose lampade ad olio accese nei pressi del Plutonio, un’indicazione che i sacerdoti vi accedevano anche di notte, proprio quando il gas era più letale.” Per D’Andria, si tratterebbe quindi non solo di conoscenze empiriche, ma forse anche di pratiche rituali pensate per esasperare il pericolo e aumentare l’aura di mistero e potere che circondava il culto.

In ogni caso, il fenomeno naturale alla base del mito resta un esempio affascinante di come religione, scienza e spettacolo potessero fondersi nell’antichità. Il Plutonio non era un semplice luogo di culto: era un teatro della morte, costruito su una ferita della Terra e orchestrato da uomini che, consapevolmente o meno, giocavano con le forze della natura.

Oggi l’area è visitabile, anche se le autorità archeologiche vietano l’accesso diretto alla grotta proprio per il rischio legato all’accumulo di CO₂. L’impressione che si ricava, camminando tra le pietre antiche di Hierapolis, è quella di una civiltà che sapeva sfruttare le leggi fisiche per avvalorare i suoi miti, costruendo un sofisticato equilibrio tra paura e fede, tra mistero e dominio.

Il mito della “Porta dell’Inferno”, dunque, sopravvive non come una favola scacciata dalla ragione, ma come un esempio straordinario del potere che le conoscenze ambientali – anche rudimentali – avevano nell’antichità. E forse anche oggi, di fronte ai grandi misteri della natura, dovremmo imparare a guardare con la stessa meraviglia e rispetto.



giovedì 6 ottobre 2022

"Dammi una spada e ucciderò il tiranno": il giovane Catone e l’audacia che sfidò Silla

Nell'anno 82 avanti Cristo, la Repubblica Romana si trovava in ginocchio. Non per mano di un esercito straniero o di un nemico interno armato di ideali sovversivi, ma sotto il controllo ferreo di uno dei suoi stessi figli: Lucio Cornelio Silla, dittatore a tempo indeterminato, signore della guerra civile e architetto di un regime fondato sulla repressione e sull'eliminazione sistematica degli oppositori. In un clima di terrore, dove le proscrizioni portavano ogni giorno alla morte decine di cittadini illustri, nessuno osava opporsi apertamente. Nessuno, eccetto un ragazzo di appena quattordici anni.

Marco Porcio Catone, discendente della stirpe austera di Catone il Censore, già in età adolescenziale incarnava lo spirito più puro e intransigente del mos maiorum — quel codice di valori antichi che aveva forgiato la grandezza di Roma: disciplina, austerità, coraggio, senso della giustizia. In un’epoca in cui la Repubblica si piegava sotto il peso di un potere assoluto e arbitrario, Catone emergeva come una voce solitaria e incorruttibile, un profeta precoce della resistenza repubblicana.

La testimonianza di questo spirito indomito ci giunge attraverso le parole del biografo greco Plutarco, che racconta un episodio emblematico quanto inquietante. All’epoca, Catone viveva con lo zio Marco Livio Druso, e frequentava la casa dello stesso Silla, dove erano accolte le più importanti famiglie aristocratiche. Fu lì, osservando da vicino gli effetti devastanti del potere assoluto, che il giovane Catone cominciò a nutrire un odio profondo verso l’uomo che aveva trasformato Roma in un’arena di sangue.

Quando seppe delle continue esecuzioni ordinate dal dittatore, chiese con tono gelido al suo maestro: “Perché nessuno ha ancora ucciso Silla?”. Il precettore, sorpreso, rispose che la paura ispirata da Silla era più forte dell’odio. Fu allora che Catone, senza esitazione, replicò: “Allora dammi una spada! Lo ucciderò io. Libererò la patria dall’oppressore!”. Parole che, per quanto pronunciate da un adolescente, gelarono il sangue del maestro. Lo sguardo di Catone non era acceso da una passione passeggera, ma da una determinazione fredda, lucida, pericolosa. Da quel giorno, il ragazzo fu sorvegliato costantemente, per timore che passasse dalle parole ai fatti.

Questo aneddoto, per quanto simbolico, non è un semplice racconto di gioventù impetuosa. È il primo atto pubblico del personaggio che, crescendo, avrebbe rappresentato l’ultima speranza della Repubblica contro l'avanzata dell'autoritarismo. Catone il Giovane, come sarà ricordato nei decenni successivi, non fu mai un rivoluzionario nel senso moderno del termine, ma piuttosto un conservatore radicale, pronto a morire pur di difendere il sistema istituzionale tramandato dagli antenati.

Fu senatore, pretore, e figura di riferimento per la fazione degli optimates. Fu il nemico giurato di Giulio Cesare, il quale rappresentava ai suoi occhi la reincarnazione dello stesso pericolo che aveva visto in Silla: un potere personale che si erge al di sopra delle leggi. Quando Cesare attraversò il Rubicone, Catone tentò di opporsi con ogni mezzo politico e morale. E quando Roma fu definitivamente perduta nelle mani del nuovo padrone, preferì togliersi la vita a Utica, piuttosto che piegarsi all’umiliazione di vivere sotto una dittatura.

Ma tutto iniziò in quella stanza, con quella frase sussurrata tra rabbia e purezza: “Dammi una spada”. Una frase che riecheggia nella storia come un monito contro l’assuefazione al potere tirannico. Catone non fu un eroe perfetto, e le sue scelte intransigenti contribuirono forse alla fine di ciò che cercava di salvare. Eppure, fu l’unico a non piegarsi mai, a credere fino all’estremo sacrificio che la Repubblica valesse più della vita.

Nel mondo moderno, dove spesso il compromesso è la moneta corrente della politica, la figura di Catone ci ricorda che vi sono momenti in cui il silenzio è complicità, e che anche la voce di un ragazzo può scuotere un impero.



mercoledì 5 ottobre 2022

Contraffazione e svalutazione nell'antica Roma: quando l’Impero falsificava se stesso

Nel mondo moderno, la contraffazione della moneta è un crimine perseguito con rigore. Ma nell’antica Roma, la linea tra frode e politica monetaria era molto più sfumata — e, sorprendentemente, i principali artefici della manipolazione del denaro erano spesso gli stessi imperatori. Più che un’eccezione, la contraffazione — o, per usare un termine più preciso, la svalutazione sistematica della moneta — era una prassi largamente diffusa e istituzionalizzata, talvolta deliberatamente promossa dallo Stato per ragioni economiche o belliche.

Le monete romane erano, a differenza del denaro fiat odierno, veri e propri oggetti di valore intrinseco. Un aureo d’oro, un denario d’argento o un asse di rame non erano semplici simboli di ricchezza, ma contenevano quella ricchezza, nel peso e nella purezza del metallo prezioso da cui erano composti. Per questo motivo, il valore delle monete non era determinato solo dalla loro emissione ufficiale, ma anche dal contenuto effettivo di oro o argento che le caratterizzava.

In un’economia fondata sul valore materiale del denaro, la tentazione di manipolare la composizione metallica delle monete era forte — e non solo per falsari privati. Durante i periodi di crisi, furono gli stessi imperatori a ridurre progressivamente la quantità di metallo nobile nelle monete, con effetti devastanti sulla fiducia e sull’equilibrio dei prezzi.

Il caso più emblematico di questa pratica è il destino dell’Antoniniano, introdotto da Caracalla nel 215 d.C. Come moneta d’argento dal valore teorico doppio rispetto al denario, l’Antoniniano nacque già con un problema strutturale: conteneva meno di 1,5 volte l’argento del denario. Fu, in sostanza, una truffa legalizzata.

Con la crisi del III secolo, la situazione peggiorò rapidamente. Gli imperatori che si succedettero — Macrino, Eliogabalo, Alessandro Severo e molti altri — continuarono a ridurre la percentuale di argento nell’Antoniniano, fino a trasformarlo in una moneta dal valore quasi simbolico. Verso il 270 d.C., sotto l’imperatore Aureliano, il contenuto d’argento era sceso al 5%, rendendo la moneta sostanzialmente priva di valore. L’iperinflazione esplose. I prezzi dei beni aumentarono vertiginosamente e la gente, sfiduciata, cominciò a rifiutare le monete ufficiali, preferendo il baratto o metodi alternativi di scambio.

La contraffazione vera e propria, condotta da privati, era naturalmente punita severamente. Le tecniche più comuni prevedevano l’uso di metalli meno preziosi come il rame, ricoperti da sottili strati di argento. I falsari riproducevano i conii ufficiali per dare legittimità visiva alle monete adulterate, ma col tempo l’usura faceva emergere la natura fraudolenta del pezzo: la patina d’argento si consumava e il rame sottostante veniva esposto.

Ma il contrasto tra queste attività clandestine e le azioni dello Stato è sottile. I falsari rischiavano la pena capitale per imitare monete che, nel frattempo, gli imperatori svalutavano sistematicamente per finanziare guerre, pagare i soldati o sostenere l’apparato statale. La vera differenza non stava nel metodo, ma nella legittimità politica di chi effettuava la contraffazione.

Nell’antica Roma, il denaro non era solo uno strumento di scambio, ma anche un bene d’uso. Le monete potevano essere fuse per ottenere gioielli, cucite sugli abiti per mostrare ricchezza, o persino tagliate per pagare frazioni del loro valore. In mancanza di pezzi di piccolo taglio, era prassi comune dividere una moneta più grande per ottenere il giusto ammontare — un comportamento impensabile oggi, ma perfettamente logico in un sistema monetario basato sul peso del metallo.

Per questo motivo, il valore di una moneta dipendeva tanto dalla zecca di provenienza quanto dallo stato di conservazione. Monete più antiche, ma più pure, valevano più di quelle nuove coniate con leghe depotenziate. Ecco perché nei grandi pagamenti, il denaro non era solo contato, ma pesato: ciò che contava era il contenuto di metallo, non il numero impresso sul conio. Da qui l’iconografia ricorrente del banchiere medievale con la bilancia, simbolo di un’economia ancora legata a criteri materiali.

Nel 284 d.C., l’ascesa di Diocleziano segnò un tentativo deciso di riformare il sistema monetario. L’imperatore aumentò il contenuto d’argento dell’Antoniniano e introdusse una nuova moneta aurea, il Solidus, che per secoli divenne il pilastro dell’economia romana e bizantina. Il Solidus conteneva circa 4,5 grammi d’oro puro, ed era sufficientemente stabile da sopravvivere alla caduta dell’Impero d’Occidente, rimanendo in uso fino all’epoca carolingia.

Tuttavia, la lezione della crisi precedente non fu appresa pienamente. Nei secoli successivi, anche l’Impero d’Oriente riprese la pratica della svalutazione, fino a che nel 1092, l’imperatore Alessio I Comneno fu costretto a sostituire il Solidus con una nuova moneta, l’iperpiron, per tentare di arginare il degrado monetario.

La storia monetaria dell’antica Roma mostra che la fiducia nel denaro è un bene fragile. Quando la moneta perde valore perché viene adulterata — sia da falsari, sia da governi in cerca di risorse — la società ne paga il prezzo in termini di inflazione, instabilità e perdita di coesione. Se oggi la carta moneta ha valore solo perché lo Stato lo garantisce, è anche vero che proprio lo Stato — come nell’antichità — può trasformarsi nel primo e più efficiente dei contraffattori. Una riflessione che, dalla Roma imperiale ai tempi moderni, non ha mai perso attualità.



martedì 4 ottobre 2022

Il segreto tonificante dei gladiatori romani? Una bevanda a base di cenere

Per secoli, l’immaginario collettivo ha rappresentato i gladiatori come guerrieri possenti e carichi di carne e vino, impegnati in duelli epici nell’arena davanti a folle urlanti. Eppure, la scienza moderna ci restituisce un ritratto ben diverso: quello di atleti altamente specializzati, la cui alimentazione era sorprendentemente più vicina a quella di un moderno vegetariano che a quella di un carnivoro da banchetto. E il loro tonico? Nient’altro che una bevanda a base di ceneri vegetali.

Uno studio congiunto del Dipartimento di Medicina Forense dell’Università di Vienna e dell’Università di Berna, pubblicato a seguito di un’analisi condotta su resti umani rinvenuti nell’antica Efeso (oggi in Turchia), ha fatto luce sulla dieta dei gladiatori del II-III secolo d.C. I risultati si basano sull’esame di 53 scheletri provenienti da un cimitero nei pressi dell’anfiteatro cittadino, di cui 22 attribuiti con certezza a gladiatori professionisti.

I testi dell’antichità definivano spesso i gladiatori hordearii, ovvero “mangiatori d’orzo”. Un termine che, più che un titolo nobile, aveva un’accezione quasi spregiativa, indicando la bassa qualità degli alimenti a loro destinati. Tuttavia, i dati scientifici oggi sembrano confermare la fondatezza di quell’epiteto.

Attraverso la spettroscopia isotopica, gli studiosi hanno analizzato il contenuto di carbonio, azoto e zolfo nel collagene osseo, nonché le concentrazioni di calcio e stronzio nella componente minerale delle ossa. I risultati hanno evidenziato una dieta fortemente incentrata su legumi, cereali e vegetali. Nessuna traccia significativa di consumo abituale di carne o prodotti animali. Si trattava, insomma, di una dieta prevalentemente vegetariana, ricca di fibre, carboidrati complessi e sali minerali.

Questa dieta non era frutto del caso, ma piuttosto il risultato di una scelta funzionale alla vita in arena: una fonte energetica a rilascio lento, utile a sostenere gli sforzi intensi dei combattimenti, senza i rischi legati a un’alimentazione ricca di grassi animali.

Ma l’aspetto più sorprendente dell’indagine riguarda la sorprendente concentrazione di stronzio nelle ossa dei gladiatori, nettamente superiore rispetto a quella riscontrata nella popolazione comune dell’epoca.

Lo stronzio è un elemento che si comporta in modo simile al calcio nel corpo umano e si accumula nel tessuto osseo. La sua presenza in livelli così elevati suggerisce che i gladiatori assumessero sistematicamente fonti minerali non comuni. L’ipotesi degli studiosi è che queste provenissero da una bevanda ricavata dalle ceneri di piante, un rimedio citato anche in fonti storiche, ma finora mai confermato scientificamente.

Fabian Kanz, antropologo forense e co-autore dello studio, ha commentato: “Le ceneri di piante venivano chiaramente consumate per fortificare il corpo dopo gli sforzi fisici e per favorire una migliore guarigione delle ossa”. Questo uso della cenere, oggi può sembrarci inusuale, ma ha profonde radici nella medicina antica, che riconosceva alle ceneri vegetali proprietà remineralizzanti e disintossicanti.

L’analogia più vicina ai nostri giorni è quella degli integratori di magnesio e calcio, spesso usati dagli sportivi per combattere l’affaticamento muscolare e sostenere la rigenerazione ossea. La bevanda dei gladiatori, pur rudimentale, rispondeva agli stessi principi fisiologici.

Pur non esistendo una ricetta “ufficiale” sopravvissuta nei testi, gli studiosi ipotizzano una preparazione molto semplice. La cenere veniva ottenuta bruciando piante ricche di sali minerali, come fieno, legumi secchi o alcune cortecce. Questa veniva poi sciolta in acqua o vino annacquato e bevuta come tonico.

Ecco una ricostruzione storica plausibile:

Ingredienti:

  • 1 cucchiaio di cenere vegetale setacciata (ottenuta da fieno, legumi o cortecce non trattate)

  • 250 ml di acqua

  • (facoltativo) 1 cucchiaio di vino rosso diluito

  • (facoltativo) miele o fichi secchi per aromatizzare

Preparazione:

  1. Setacciare la cenere in un panno pulito per eliminare i residui più grossolani.

  2. Scaldare l’acqua senza portarla a ebollizione.

  3. Aggiungere la cenere e lasciare in infusione per circa 10 minuti.

  4. Filtrare nuovamente con cura e, se gradito, aggiungere vino o miele.

  5. Bere fredda o a temperatura ambiente.

Va sottolineato che questa è una ricostruzione storica e non è raccomandato consumare ceneri vegetali senza rigorosi controlli, poiché potrebbero contenere sostanze tossiche. L’interesse di questa preparazione è principalmente storico e culturale.

Questa scoperta rivoluziona l’immagine stereotipata del gladiatore come bruto assetato di sangue. Al contrario, emerge il profilo di un atleta controllato, attento all’alimentazione, monitorato nella dieta e sottoposto a un regime fisico e nutrizionale rigoroso, non dissimile da quello degli sportivi contemporanei.

I combattimenti non erano solo spettacolo, ma anche esibizioni tecniche e coreografate, in cui la resistenza fisica era cruciale. Una dieta troppo ricca o sbilanciata avrebbe potuto compromettere le prestazioni e la lucidità sul campo.

La bevanda a base di cenere era, dunque, parte integrante di un sistema di cura del corpo, uno strumento preventivo e terapeutico volto a favorire il recupero osseo e muscolare.

La scoperta della “bevanda di cenere” getta nuova luce sulla sofisticazione della medicina sportiva nell’antichità. Lungi dall’essere superstiziosi o improvvisati, i romani avevano compreso, in modo empirico ma efficace, l’importanza dell’equilibrio minerale per la salute ossea e la performance fisica.

In un certo senso, i gladiatori ci insegnano ancora qualcosa: che la vera forza nasce dall’equilibrio, dalla preparazione, e da una conoscenza del corpo che supera i secoli.


lunedì 3 ottobre 2022

La fine di Cicerone: il sacrificio della parola sotto il giogo del potere

Dicembre, 43 a.C. Il sole d’inverno si riflette sulle acque quiete di Formia, mentre il sangue di uno dei più grandi oratori della storia romana segna l’asfalto della Storia. Marco Tullio Cicerone, filosofo, politico, difensore irriducibile della Repubblica, cade vittima di un’epurazione tanto brutale quanto simbolica. Il suo corpo, mutilato della testa e delle mani, viene esposto nel cuore di Roma: i rostri del Foro, da sempre tribuna della libertà di parola, diventano l’altare di un potere nuovo e vendicativo.

Il mandante dell'esecuzione è Marco Antonio, ex alleato, poi acerrimo nemico. Le parole di Cicerone, scagliate come dardi infuocati nei celebri Filippici, hanno segnato l’oratore per sempre nella lista dei proscritti stilata dai triumviri – Antonio, Ottaviano e Lepido – nel tentativo di consolidare il controllo assoluto su una Repubblica ormai morente. Ma Cicerone non fugge. Plutarco, attento biografo greco, ce lo consegna in una scena di dolorosa dignità: nella lettiga, già conscio della fine, chiede ai suoi servi di fermarsi, si scopre il collo e affronta la morte con uno sguardo fisso, assorto, come a voler incatenare per l’ultima volta la violenza con la sola forza del pensiero.

Le mani, strumenti con cui aveva scritto le invettive contro l’arroganza di Antonio, e la testa, sede del suo pensiero e della sua voce, vengono mozzate e mostrate pubblicamente. Il gesto non è solo vendetta: è un’azione deliberatamente scenografica, volta a terrorizzare ogni opposizione, a uccidere non solo l’uomo ma anche il simbolo della resistenza repubblicana. È un avvertimento, inciso nella carne, su cosa attende chi osa sfidare l’autorità nascente.

Eppure, la vendetta dei suoi carnefici non riesce a cancellarne l’eredità. Anni più tardi, l’imperatore Augusto – lo stesso Ottaviano che ne aveva approvato la condanna – sorprende un nipote intento a leggere un’opera di Cicerone. Il giovane, temendo la collera dell’imperatore, cerca di nascondere il libro, ma Augusto lo ferma. Lo apre. Legge. E poi, in un gesto inatteso, lo restituisce al ragazzo pronunciando parole che hanno attraversato i secoli: “Era un uomo saggio, ragazzo mio, un uomo saggio; e amava la patria”.

Il momento racchiude l’ambivalenza della Storia. Augusto, artefice dell’Impero, riconosce il valore dell’uomo che incarnava l’ultima voce della Repubblica. È il paradosso della politica romana: quella capacità di sacrificare la virtù sull’altare della ragion di Stato, salvo poi celebrarla a posteriori come esempio sublime.

Cicerone morì per la sua fede nella parola, per la sua ostinazione nel credere che la Repubblica potesse ancora essere salvata attraverso il dialogo e la legge. Fu sconfitto, sì, ma non fu vinto. Le sue opere, sopravvissute alle fiamme del potere, avrebbero ispirato pensatori e rivoluzionari per secoli a venire: da Petrarca a Machiavelli, da Voltaire ai Padri fondatori dell’America.

La sua morte non fu solo la fine di un uomo, ma il tramonto di un’epoca in cui l’oratoria, la filosofia e il diritto erano gli strumenti supremi del governo. Eppure, proprio in quell’atto brutale, nel sangue versato e nelle parole salvate, si cela il seme di una memoria immortale. Una lezione che riecheggia ancora oggi: la libertà di pensiero può essere repressa, ma mai completamente spenta.

Marco Tullio Cicerone morì a sessantaquattro anni. Ma il suo spirito continua a parlare, come un’eco antica che attraversa le rovine di Roma e giunge fino a noi.

domenica 2 ottobre 2022

La potenza del simbolo: lo scudo spartano e l’arte della guerra psicologica nel V secolo a.C.

Nelle sabbie rosse della Laconia, fra le aspre montagne del Peloponneso, si forgiava uno degli strumenti più riconoscibili dell’antichità: lo scudo degli opliti spartani. A prima vista, nulla più che un disco di legno rivestito di bronzo, dal diametro di quasi un metro e dal peso di circa otto chili. Ma per chi lo impugnava — e ancor di più per chi lo fronteggiava — rappresentava molto di più di una semplice protezione: era l’incarnazione di un’ideologia, di un’identità collettiva e, forse, dell’antesignano della propaganda bellica.

A differenza di altri eserciti della Grecia classica, in cui gli scudi fungevano anche da tela personale per l’espressione individuale del guerriero, gli Spartani adottarono una scelta che oggi potremmo definire strategica: la standardizzazione. Secondo il drammaturgo ateniese Euripide, attivo intorno al 420 a.C., gli scudi lacedemoni erano contrassegnati da un’unica, potente immagine: una lambda (Λ), la lettera iniziale del termine Lacedaemon, il nome con cui Sparta era conosciuta nel mondo greco. Quell’unica lettera, dipinta a tinte vivide, aveva un impatto ben preciso sul campo di battaglia. Per i nemici, vedere avanzare una falange compatta di scudi identici, brillanti alla luce del sole e marchiati dal simbolo laconico per eccellenza, era un’esperienza che travalicava il semplice timore fisico: era l’assalto dell’idea stessa di Sparta.

Non è un caso che gli Ateniesi, noti per il loro spirito libero e la propensione al dissenso, ritenessero quel tipo di esibizione qualcosa di inquietante. Euripide, nella sua tragedia I Suppli, descrive lo sgomento degli avversari di fronte a quei soldati “marchiati dalla lambda”, sottolineando come la vista di tale coesione visuale fosse di per sé un’arma psicologica. La guerra, in fondo, è anche teatro, e Sparta ne comprendeva le regole meglio di chiunque altro.

Prima dell’introduzione sistematica della lambda, tuttavia, sembra che vi fosse una maggiore libertà individuale nella decorazione degli scudi. Numerose testimonianze, tra cui quella del biografo e moralista Plutarco, ci raccontano aneddoti che restituiscono un’immagine diversa, più umana e forse più ironica della cultura spartana. Celebre è il caso di un oplita che, secondo Plutarco, decise di dipingere sul proprio scudo una mosca a grandezza naturale. Gli altri soldati lo derisero, ipotizzando che volesse passare inosservato sul campo. Ma la sua risposta fu tagliente: “L’ho scelta proprio per farmi notare. Mi avvicino tanto ai nemici che possono vedere quanto è grande il mio emblema”.

Un aneddoto semplice, ma rivelatore. Ci racconta che anche nella rigida società spartana esisteva spazio per la provocazione, per il gesto personale che sfida la convenzione. E, al contempo, mostra come anche la più piccola immagine potesse avere una funzione strategica, comunicativa, perfino intimidatoria.

Lo scudo spartano — detto aspis o talvolta hoplon, da cui il termine “oplita” — non era soltanto un’arma difensiva. Costituiva il centro della formazione militare della falange: era tenuto con la mano sinistra in modo da proteggere il corpo e parte del compagno alla propria sinistra. Questo implicava che il soldato spartano non combatteva per sé stesso, ma per il gruppo, per il legame indissolubile che lo univa ai suoi pari. Da qui nasce uno dei precetti più noti attribuiti alle madri spartane: “Torna con lo scudo o sopra di esso” — ovvero, torna vincitore o morto, ma mai disonorato.

La lambda, quindi, non era solo un simbolo geografico. Era la rappresentazione visiva del collettivo, dell’ordine, della disciplina. In un mondo in cui le città-stato greche si facevano guerra per supremazie culturali prima che territoriali, quell’unica lettera diceva tutto ciò che Sparta voleva dire di sé: unità, austerità, invincibilità.

L’adozione uniforme di tale simbolo potrebbe essere avvenuta in parallelo con l’evoluzione della guerra nel V secolo a.C., quando le battaglie iniziarono a essere condotte da eserciti sempre più professionali e centralizzati. La scelta di eliminare le individualità dai fronti di battaglia, trasformando ogni oplita in un ingranaggio riconoscibile ma impersonale, rispondeva a un’esigenza di controllo e di efficacia. Lo scudo decorato non era più la voce del singolo, ma la firma silenziosa della polis.

In definitiva, ciò che rende affascinante lo scudo spartano non è solo la sua fattura o il suo impiego tattico, ma la sua capacità di sintetizzare, in un solo oggetto, una visione del mondo. Un mondo dove la guerra era rituale e spettacolo, dovere e identità. Dove anche una lettera, impressa su bronzo, poteva farsi ideologia.

Oggi, a distanza di venticinque secoli, quello stesso simbolo continua a esercitare il suo magnetismo. Non più come minaccia, ma come frammento di memoria, richiamo a un’epoca in cui la forza non si limitava alla spada, ma si esprimeva — con straordinaria consapevolezza — attraverso l’immagine.

sabato 1 ottobre 2022

Gladiatori: verità e mito del sangue nell’arena

L'immagine dei gladiatori romani eternamente condannati a combattere fino alla morte, alimentata da secoli di letteratura sensazionalistica e da un’industria cinematografica affamata di pathos, è una visione tanto iconica quanto imprecisa. La realtà storica, pur cruda e violenta, ci restituisce un quadro molto più sfumato e pragmatico: nella maggior parte dei casi, i gladiatori non combattevano fino alla morte. Il loro destino era molto più legato all'economia dello spettacolo che non al puro e semplice spargimento di sangue.

Un gladiatore addestrato rappresentava un investimento significativo. I lanisti, ovvero i proprietari e allenatori dei combattenti, spendevano tempo, denaro e risorse per formare questi uomini secondo tecniche codificate e discipline rigorose. Perdere un gladiatore significava una perdita finanziaria, non solo per il lanista ma anche per lo sponsor del gioco, il munerarius, che organizzava e finanziava gli spettacoli. In termini odierni, sarebbe come distruggere volontariamente una vettura da corsa altamente specializzata a ogni gara.

Le statistiche parlano chiaro: tra il 10% e il 20% dei combattimenti si concludevano con la morte di uno dei contendenti. Queste cifre si basano su analisi archeologiche, come quelle condotte presso il cimitero dei gladiatori a Efeso, dove molte delle ossa esaminate mostravano segni di ferite guarite. Segno evidente che questi uomini non solo sopravvivevano agli scontri, ma continuavano a combattere per anni.

Il sistema romano era dotato di un meccanismo sorprendentemente codificato per decidere il destino del gladiatore sconfitto: la missio. Al termine del combattimento, il gladiatore che si arrendeva poteva chiedere pietà al pubblico e al munerarius. Se aveva dimostrato valore e abilità, spesso gli veniva risparmiata la vita. Se la sua prestazione era stata giudicata indegna, la condanna era la morte.

Il famigerato gesto del “pollice verso”, spesso equivocato nella cultura popolare, rappresentava il verdetto: non vi era un gesto standardizzato e univoco in tutto l’Impero, ma generalmente un pollice rivolto verso il basso o orizzontale indicava la condanna, mentre il pollice rientrato nel pugno segnalava la grazia. La decisione non era mai affidata al capriccio: pubblico, sponsor, lanista e, in certi casi, l’imperatore stesso contribuivano al giudizio.

Esistevano tuttavia casi specifici in cui la morte era l’unico esito possibile. Alcuni spettacoli, chiamati sine missione, escludevano per principio la possibilità di grazia. In questi combattimenti “senza pietà”, spesso celebrati per commemorare eventi straordinari o per intrattenere l’imperatore, la morte era obbligatoria. Questi eventi conobbero un picco durante il regno di Domiziano, noto per la sua crudeltà, ma furono limitati sotto l’imperatore Marco Aurelio, che cercò di umanizzare – almeno parzialmente – le pratiche gladiatorie.

Un caso a parte riguarda i damnati ad gladium, ovvero criminali condannati a combattere come gladiatori fino alla morte. Questi non erano atleti addestrati né parte integrante del sistema degli gladiatores professionisti. Venivano usati come carne da macello per intrattenere le masse, un esempio di punizione pubblica che si trasformava in spettacolo.

Un elemento che raramente compare nei resoconti romanzati, ma che ha un fondamento storico essenziale, è la presenza costante di medici professionisti tra gli staff delle scuole gladiatorie. Uno dei più celebri, Galeno, divenne medico dei gladiatori a Pergamo, dove poté affinare le sue conoscenze anatomiche grazie all’osservazione diretta delle ferite da combattimento. Le sue opere, ancora oggi pilastro della medicina antica, descrivono non solo tecniche di cura, ma anche l’eccezionale attenzione riservata alla salute dei gladiatori, trattati più come atleti che come sacrificabili.

Molti gladiatori accumulavano carriere lunghe e proficue, godendo di fama e privilegi. Potevano diventare celebri, ricevere doni, riscattare la propria libertà con la rudis – la spada di legno simbolo della liberazione – e persino accedere a un certo status sociale. Le loro gesta venivano immortalate in graffiti, affreschi, mosaici e perfino su anfore e lampade da olio.

L’arena romana era un luogo di violenza ritualizzata, ma anche di calcolo e spettacolo controllato. Hollywood ha fatto del massacro l’elemento dominante, ma la Roma imperiale era molto più interessata a conservare l’investimento e a dare al pubblico un combattimento avvincente piuttosto che un funerale spettacolare. La morte era presente, certo, ma era regolata, pesata, e – in larga misura – evitata.

Nel mondo dei gladiatori, sopravvivere era più redditizio che morire, e Roma, nella sua brutalità ordinata, lo sapeva bene.