Nell'anno 82 avanti Cristo, la Repubblica Romana si trovava in ginocchio. Non per mano di un esercito straniero o di un nemico interno armato di ideali sovversivi, ma sotto il controllo ferreo di uno dei suoi stessi figli: Lucio Cornelio Silla, dittatore a tempo indeterminato, signore della guerra civile e architetto di un regime fondato sulla repressione e sull'eliminazione sistematica degli oppositori. In un clima di terrore, dove le proscrizioni portavano ogni giorno alla morte decine di cittadini illustri, nessuno osava opporsi apertamente. Nessuno, eccetto un ragazzo di appena quattordici anni.
Marco Porcio Catone, discendente della stirpe austera di Catone il Censore, già in età adolescenziale incarnava lo spirito più puro e intransigente del mos maiorum — quel codice di valori antichi che aveva forgiato la grandezza di Roma: disciplina, austerità, coraggio, senso della giustizia. In un’epoca in cui la Repubblica si piegava sotto il peso di un potere assoluto e arbitrario, Catone emergeva come una voce solitaria e incorruttibile, un profeta precoce della resistenza repubblicana.
La testimonianza di questo spirito indomito ci giunge attraverso le parole del biografo greco Plutarco, che racconta un episodio emblematico quanto inquietante. All’epoca, Catone viveva con lo zio Marco Livio Druso, e frequentava la casa dello stesso Silla, dove erano accolte le più importanti famiglie aristocratiche. Fu lì, osservando da vicino gli effetti devastanti del potere assoluto, che il giovane Catone cominciò a nutrire un odio profondo verso l’uomo che aveva trasformato Roma in un’arena di sangue.
Quando seppe delle continue esecuzioni ordinate dal dittatore, chiese con tono gelido al suo maestro: “Perché nessuno ha ancora ucciso Silla?”. Il precettore, sorpreso, rispose che la paura ispirata da Silla era più forte dell’odio. Fu allora che Catone, senza esitazione, replicò: “Allora dammi una spada! Lo ucciderò io. Libererò la patria dall’oppressore!”. Parole che, per quanto pronunciate da un adolescente, gelarono il sangue del maestro. Lo sguardo di Catone non era acceso da una passione passeggera, ma da una determinazione fredda, lucida, pericolosa. Da quel giorno, il ragazzo fu sorvegliato costantemente, per timore che passasse dalle parole ai fatti.
Questo aneddoto, per quanto simbolico, non è un semplice racconto di gioventù impetuosa. È il primo atto pubblico del personaggio che, crescendo, avrebbe rappresentato l’ultima speranza della Repubblica contro l'avanzata dell'autoritarismo. Catone il Giovane, come sarà ricordato nei decenni successivi, non fu mai un rivoluzionario nel senso moderno del termine, ma piuttosto un conservatore radicale, pronto a morire pur di difendere il sistema istituzionale tramandato dagli antenati.
Fu senatore, pretore, e figura di riferimento per la fazione degli optimates. Fu il nemico giurato di Giulio Cesare, il quale rappresentava ai suoi occhi la reincarnazione dello stesso pericolo che aveva visto in Silla: un potere personale che si erge al di sopra delle leggi. Quando Cesare attraversò il Rubicone, Catone tentò di opporsi con ogni mezzo politico e morale. E quando Roma fu definitivamente perduta nelle mani del nuovo padrone, preferì togliersi la vita a Utica, piuttosto che piegarsi all’umiliazione di vivere sotto una dittatura.
Ma tutto iniziò in quella stanza, con quella frase sussurrata tra rabbia e purezza: “Dammi una spada”. Una frase che riecheggia nella storia come un monito contro l’assuefazione al potere tirannico. Catone non fu un eroe perfetto, e le sue scelte intransigenti contribuirono forse alla fine di ciò che cercava di salvare. Eppure, fu l’unico a non piegarsi mai, a credere fino all’estremo sacrificio che la Repubblica valesse più della vita.
Nel mondo moderno, dove spesso il compromesso è la moneta corrente della politica, la figura di Catone ci ricorda che vi sono momenti in cui il silenzio è complicità, e che anche la voce di un ragazzo può scuotere un impero.
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