Nel nostro mondo moderno, l’immagine di un fallo disegnato su un muro è considerata un atto vandalico, una burla adolescenziale da rimuovere il prima possibile. Ma nell’antica Roma — una civiltà ossessionata dal potere, dalla protezione e dalla fertilità — la stessa immagine assumeva un valore radicalmente diverso. Non solo non era considerata oscena, ma era oggetto di culto, simbolo apotropaico e strumento di difesa mistico-religiosa.
In un sorprendente ribaltamento del nostro attuale sistema di valori, i Romani vedevano nella raffigurazione del fallo una forza positiva, un talismano contro le forze maligne. Il fascinum — come veniva chiamato l'amuleto fallico — era onnipresente: lo si trovava sulle porte delle abitazioni, sulle lucerne a olio, appeso ai colli dei bambini, o incastonato nei mosaici e nelle sculture. Alcuni esemplari, come quelli rinvenuti a Pompei, sono vere opere d’arte: campanelli eolici in bronzo a forma di falli alati, amuleti multipli montati su strutture decorate, figure di Mercurio in forma fallica con campanelle attaccate alle estremità.
Il culto del fallo era strettamente connesso al dio Fascinus, una divinità minore ma potente, incaricata di proteggere i Romani dalla fascinatio, ovvero l’influenza maligna e invidiosa, un’idea non distante dal concetto di “malocchio”. Le stesse Vestali, le custodi della sacra fiamma di Roma, erano incaricate della venerazione del fascinum populi Romani — il fallo sacro del popolo romano, conservato nel tempio di Vesta.
Lo scrittore cristiano Agostino, pur condannando con severità questi riti, ne fornisce un resoconto prezioso nel suo De Civitate Dei: durante i riti di Liber Pater — divinità dell'ebbrezza e della fecondità, assimilata a Dioniso — un fallo gigantesco veniva posto su un carro e portato in processione attraverso i campi e poi in città, in un rituale mistico finalizzato a garantire fertilità e protezione contro l’invidia distruttiva.
L’uso del fallo come oggetto protettivo non si limitava ai riti religiosi. Secondo Plinio il Vecchio, un’immagine fallica veniva appesa sotto il carro trionfale dei generali vittoriosi per proteggerli dall’odio e dall’invidia del popolo. Nei graffiti pompeiani, invece, il fallo era impiegato con leggerezza e ironia, come nel celebre esempio: “Hospes, feliciter! Hic ego cum ancilla puella bene futui” (“Ospite, benvenuto! Qui io ho fatto del buon sesso con la servetta”). Un gesto che, a dispetto del nostro sguardo moderno, non era offensivo, bensì familiare, quasi augurale.
Ma la personificazione più estrema di questa ossessione fallica era Priapo, un dio rurale di origini greche, successivamente adottato dai Romani. Figlio di Afrodite e Dioniso, Priapo incarnava la virilità e la potenza generativa della natura. Maledetto per la sua sfacciata lussuria e il suo aspetto grottesco, veniva raffigurato come un nano dal pene costantemente eretto, spesso colorato di rosso, e usato come spaventapasseri nei campi. Le sue statue, posizionate nei giardini, erano temute tanto quanto venerate: chi osava rubare i frutti del giardino rischiava, secondo la leggenda, un’aggressione sessuale da parte del dio stesso.
Ovidio, nei suoi Fasti, descrive con tono ironico e provocatorio il tentativo di Priapo di violentare una ninfa, sventato da un asino che ragliando sveglia tutti. Più tardi, nella raccolta Priapea, il dio diventa protagonista di una letteratura popolare satirica, in cui minaccia chiunque si avvicini alle sue proprietà con ogni genere di vendetta sessuale.
Queste pratiche, per quanto sconcertanti per il nostro sguardo contemporaneo, non erano marginali. Esse permeavano la vita quotidiana, religiosa e politica della Roma antica. Non solo il fallo era onnipresente, ma possedeva uno statuto culturale e simbolico ben preciso: era il sigillo della fertilità, lo scudo contro le forze oscure, e un marchio di potere, sociale e divino.
Oggi, l’unico luogo al mondo in cui sopravvive un analogo sistema simbolico è il Bhutan, dove i falli dipinti adornano le case per proteggere gli abitanti dagli spiriti maligni e dai pettegolezzi. Una continuità che, seppur geograficamente distante, offre un raro specchio di quella Roma arcaica che non temeva l’anatomia, ma anzi, la venerava.
In un’epoca in cui il corpo è spesso censurato e la sessualità relegata alla sfera privata, il mondo romano ci ricorda che ciò che oggi consideriamo osceno può, in altri contesti, rappresentare il sacro. E forse ci invita a chiederci quanto della nostra visione sia davvero universale — o solo il riflesso dei nostri tabù.
Nessun commento:
Posta un commento