Roma, 14 d.C. — Se vi immaginate un appartamento romano come un moderno bilocale con cucina, bagno e soggiorno, vi conviene rivedere le aspettative. Nell’antica Roma, la maggior parte dei cittadini non viveva rinchiusa tra quattro mura, ma immersa nella città stessa, che fungeva da estensione del proprio spazio vitale. Le abitazioni private erano essenzialmente luoghi dove dormire. Per tutto il resto — mangiare, lavarsi, socializzare, perfino lavorare — c’era l’urbe.
Il cuore dell’edilizia abitativa romana per la gente comune era l’insula, una sorta di palazzina multipiano in muratura, a volte anche in legno o materiali meno resistenti, spesso soggetta a incendi e crolli. Le insulae si sviluppavano in altezza — in certi casi fino a sei piani — per rispondere al problema del sovraffollamento urbano. Al piano terra vi erano i negozi (le tabernae), con i retrobottega e soppalchi destinati a dormitori. I piani più alti ospitavano alloggi via via più piccoli, meno salubri e meno costosi.
Le famiglie modeste, artigiani, schiavi e liberti con pochi mezzi abitavano ambienti minuscoli, composti spesso da una sola stanza. Mobili? Ridotti all’essenziale: uno o due bauli per riporre vestiti e oggetti di valore, qualche sgabello, forse un letto. In molti casi si dormiva direttamente su stuoie o materassi poggiati a terra. Il riscaldamento era affidato a un braciere, che fungeva anche da rudimentale cucina, sebbene cucinare in casa fosse raro: mancavano veri spazi per farlo, e il rischio di incendio era sempre dietro l’angolo.
Per i più fortunati, al primo piano dell’insula si poteva trovare qualche appartamento con più stanze. Ma attenzione: anche in questi casi non si trattava mai di abitazioni autosufficienti. Non c’era bagno e non c’era cucina. L'acqua doveva essere presa alle fontane pubbliche; per i bisogni fisiologici si ricorreva alle latrine comuni o a vasi da notte che venivano poi svuotati — spesso in strada o nei canali di scolo. E i servizi igienici erano spesso condivisi da decine, se non centinaia, di persone.
La giornata tipo di un romano iniziava presto. Dopo essersi recato alle latrine pubbliche, consumava una colazione frugale: solitamente pane inzuppato in vino annacquato. Lavorava fino a mezzogiorno, poi si dedicava alla vita sociale e ai bagni pubblici, le celebri terme, uno degli spazi più democratici della città: accessibili a tutti, dagli schiavi ai senatori. Qui ci si lavava, ci si radeva, si prendeva parte a massaggi, esercizi ginnici o semplicemente si conversava.
Il termopolium, un mix tra taverna e fast food, costituiva la principale fonte di alimentazione per la maggioranza dei cittadini. Qui si acquistavano piatti pronti: porridge, pane, verdure cotte, formaggi freschi, uova, talvolta carne o pesce. I cibi si consumavano sul posto o si portavano a casa per riscaldarli sul braciere. Pranzare e cenare in casa erano atti intimi ma secondari. Il centro della convivialità era fuori, nelle strade, nei mercati, nei fori.
Le abitazioni aristocratiche, le celebri domus, offrivano una realtà completamente diversa: cortili interni, stanze affrescate, mosaici, giardini, e un apparato di servi che colmava le mancanze strutturali. Ma erano una rarità, privilegio di una ristretta élite. Per tutti gli altri, l'abitazione era un rifugio, mai un centro di vita.
In sintesi, si può dire che per i Romani la città era casa, e la casa era solo letto. Un’inversione radicale rispetto alla nostra quotidianità moderna. Eppure, da questa sobrietà funzionale emerge un modello urbano denso di relazioni sociali, di luoghi pubblici vissuti, di comunità tangibile. Lontani dai nostri divani, ma forse più vicini gli uni agli altri.
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