mercoledì 19 ottobre 2022

Quanto denaro ti rendeva ricco nell’antica Roma? Un viaggio nella ricchezza e nello status dell’Impero

Roma non fu soltanto la culla del diritto, delle arti e dell’architettura monumentale: fu anche una civiltà ossessionata dallo status, dalla ricchezza e dalle gerarchie sociali codificate. In una società rigidamente stratificata, il denaro non era soltanto uno strumento economico, ma una chiave d’accesso al potere, al prestigio e alla partecipazione alla vita pubblica. Oggi, in un’epoca in cui la ricchezza personale viene misurata in milioni di dollari o euro, ci si potrebbe chiedere: quante monete servivano per essere considerati ricchi nella Roma imperiale?

La risposta, sorprendentemente precisa, affonda le sue radici nella struttura sociale della Roma repubblicana e imperiale. Fin dal II secolo a.C., e in particolare dopo le riforme dei censori e le trasformazioni dell’esercito romano, il censo (cioè il patrimonio dichiarato di un cittadino) determinava il rango sociale, l’accesso alla politica, e persino la foggia della toga che si poteva indossare.

Per comprendere le soglie di ricchezza, è necessario partire dal sistema monetario. L’unità base della valuta romana era il sesterzio (abbreviato come "HS"), una moneta in bronzo. Quattro sesterzi equivalevano a un denario d’argento, una delle monete più utilizzate e simbolicamente cariche di prestigio, che conteneva circa 3,4 grammi d’argento. Venticinque denari, infine, formavano un aureo, una moneta d’oro del peso di circa 7,3 grammi, riservata alle transazioni di altissimo livello e alle grandi accumulazioni di ricchezza.

Con questi parametri, possiamo meglio capire le soglie patrimoniali delle tre classi dominanti di cittadini romani.

La fascia inferiore dei cittadini maschi liberi era costituita dall’ordine del proletariato, termine che, etimologicamente, indica colui che contribuisce alla società solo con la propria proles, cioè la prole. Secondo il sistema censitario, un cittadino con un patrimonio inferiore ai 100.000 denari veniva classificato come proletario. È importante sottolineare che si trattava comunque di un cives romanus, un cittadino a pieno titolo, e quindi superiore, in termini di diritti e prestigio sociale, a un libertus (schiavo liberato) o a un peregrinus (straniero), anche se questi ultimi possedessero grandi ricchezze.

L’ordo equester, ovvero la classe equestre, era composta da cittadini con un patrimonio compreso tra 100.000 e 249.000 denari. Questa era una soglia significativa: possedere 100.000 denari significava avere, in peso d’argento, circa 340 chilogrammi del prezioso metallo. In termini moderni, considerando il valore dell’argento attuale, staremmo parlando di diverse centinaia di migliaia di euro, se non più.

Gli equites erano spesso imprenditori, esattori delle imposte (publicani), ufficiali dell’esercito e funzionari amministrativi. Non avevano l’autorità politica dei senatori, ma godevano di immense opportunità economiche e di mobilità sociale. Indossavano la toga angusticlavia, con una stretta striscia porpora, simbolo del loro rango.

Al vertice della piramide sociale romana sedeva l’ordo senatorius. Per appartenervi, era necessario possedere un patrimonio superiore a 250.000 denari, una cifra astronomica che rappresentava oltre 850 chilogrammi d’argento, senza contare beni immobili, terre, schiavi e privilegi ereditarî. L’appartenenza al Senato non dipendeva soltanto dalla ricchezza, ma anche dalla genealogia e dalla condotta pubblica. Era una condizione ereditaria, soggetta all’approvazione morale dei censori.

I senatori indossavano la toga laticlavia, con un’ampia striscia di porpora, e occupavano i posti d’onore nei teatri e nelle assemblee. Non sedevano certo tra la plebe negli anfiteatri, ma godevano di visibilità e privilegi esclusivi.

È fondamentale osservare che fino al 212 d.C. l’essere ricco non garantiva l’accesso alla cittadinanza romana. Anche un peregrinus (uomo libero straniero) o un libertus (ex schiavo) con risorse considerevoli rimaneva giuridicamente inferiore a un povero cittadino romano. Questa discriminazione venne in parte eliminata dall’Editto di Caracalla (Constitutio Antoniniana), che estese la cittadinanza a tutti gli uomini liberi dell’Impero. Da quel momento, la ricchezza e lo status cominciarono a sovrapporsi più direttamente, aprendo nuovi scenari di mobilità e inclusione, almeno teorica.

La ricchezza nell’antica Roma non era soltanto una questione di monete accumulate, ma un simbolo tangibile di appartenenza, diritto e potere. Avere 250.000 denari significava molto più che essere facoltosi: significava essere parte dell’élite governante di un impero che abbracciava il mondo conosciuto. Era la differenza tra assistere allo spettacolo dei gladiatori sotto un tendalino d’avorio o tra la folla urlante nell’ultima gradinata. Era il passaporto per il Foro, per il potere, e per l’eternità.

E così, in una Roma dove persino il colore della toga raccontava la tua storia, il denaro non era solo valuta: era destino.





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