lunedì 17 ottobre 2022

Il Mare come Mattatoio: La Dieta degli Antichi Greci e la Supremazia del Pesce sulla Carne

In un’epoca in cui la carne animale era simbolo di ricchezza e di devozione sacrificale, il vero cuore della dieta dell’antica Grecia batteva al ritmo delle onde. Contrariamente all’immaginario che potremmo oggi attribuire alla dieta mediterranea antica, i Greci non erano grandi consumatori di carne rossa. Pecore e capre pascolavano certo sulle colline sassose dell’Attica e del Peloponneso, ma la loro carne raramente finiva nei piatti delle masse. Il popolo, invece, si nutriva di ciò che il mare, sempre generoso e mai chiuso, offriva quotidianamente: pesce.

In effetti, per comprendere il rapporto tra i Greci e le proteine animali, è necessario guardare alla geografia quanto alla cultura. La Grecia antica era, ed è tuttora, una penisola frastagliata, punteggiata da isole e coste infinite. Il mare non era solo una via di commercio o un orizzonte poetico; era una fonte primaria di sostentamento. Il pesce – in tutte le sue varietà e forme – rappresentava il pilastro più accessibile e abbondante della dieta quotidiana, soprattutto per le classi popolari.

Nelle agorà delle città-stato, dal Pireo ad Atene fino a Corinto, i banchi del pesce erano tra i più frequentati e affollati. Triglie, orate, cefali e soprattutto tonni rappresentavano una costante, mentre i più fortunati potevano accedere a varietà pregiate pescate in acque lontane, come il pesce spada o le murene. Il tonno, in particolare, era talmente ricercato da essere definito "il prosciutto del mare": veniva essiccato, salato o cucinato fresco. I Greci lo consideravano una prelibatezza, capace di elevare un pasto umile a banchetto degno dei simposi.

Salato o fresco, affumicato o cucinato sulla brace, il pesce era la carne del popolo. Non solo per la disponibilità, ma anche per ragioni economiche e culturali. Gli animali terrestri, come bovini, ovini e suini, erano costosi da allevare e difficili da nutrire in un ambiente caratterizzato da terre aride e pendii impervi. Il sacrificio rituale al tempio era spesso l’unico contesto in cui un cittadino comune poteva accedere a un boccone di carne rossa. La maggior parte della popolazione, quando ne aveva la possibilità, preferiva la carne di maiale – il più accessibile da allevare nei cortili domestici – ma questa rimaneva l’eccezione, non la regola.

Non si trattava solo di sopravvivenza o praticità. Il pesce assumeva un valore anche culturale, quasi spirituale. I poeti comici ateniesi, come Aristofane, ne facevano oggetto di satire e desideri irrefrenabili. I filosofi dibattevano su quale specie fosse la più gustosa. Alcuni ateniesi ricchi pagavano somme esorbitanti per avere il primo pesce del giorno, ancora umido di mare. Al mercato del Pireo, certi esemplari di pesce venivano venduti per il valore di un’intera giornata di paga. L’ossessione per il pesce, insomma, attraversava ogni ceto, diventando il vero barometro gastronomico dell’epoca.

Le pratiche di pesca erano diffuse, ingegnose, e già sorprendentemente organizzate. Reti, ami, fiocine, trappole e barche leggere permettevano ai pescatori di sfruttare al massimo le risorse marine. Persino gli scarti – teste, lische, interiora – venivano riutilizzati per insaporire zuppe o preparare il garos, una salsa di pesce fermentato usata per condire un’infinità di piatti, e predecessore del moderno nuoc mam vietnamita o del colatura di alici campana.

Il paradosso della carne sacra

Quando veniva consumata carne terrestre, essa assumeva quasi sempre un valore rituale. I sacrifici agli dèi – Zeus, Atena, Apollo – non erano meri atti religiosi, ma anche occasioni sociali in cui la comunità intera poteva finalmente godere del raro lusso della carne. Il sacrificio non era solo un dono agli dèi, ma anche un'opportunità redistributiva: una volta offerta la parte divina (il grasso e le ossa bruciati sull'altare), il resto dell’animale veniva cotto e distribuito ai presenti. In questo modo, la carne diventava cibo condiviso, atto sacro e politico allo stesso tempo.

La memoria di un mare onnipresente

Oggi, quando immaginiamo la cucina greca antica, pensiamo forse a olio d’oliva, pane d’orzo e formaggi di capra. Ma a comporre davvero la parte proteica della dieta quotidiana era il mare. Il suo ritmo scandiva non solo la nutrizione, ma anche l’identità. In un mondo in cui la terra era difficile, il mare rappresentava la continuità, la fonte eterna, l’altare liquido da cui attingere ogni giorno.

In definitiva, il mare fu per i Greci ciò che la pastorizia fu per gli Ebrei o l’agricoltura per gli Egizi: la base della sopravvivenza e della civiltà. E anche se la carne di maiale poteva di tanto in tanto comparire sulle tavole, fu il pesce, eterno compagno di viaggio, a nutrire il pensiero, la guerra e la poesia dell’antica Ellade.





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