Per i colpevoli di tradimento c’era una morte specifica nell’antica Roma.
Le lex horrendi carminis, come racconta Tito Livio nel suo “Ab Urbe condita” prevedeva che: “Gli sia coperto il capo, sia sospeso da terra all’albero infelice e sia frustato dentro il pomerio e fuori”. Che pena era?
L’espressione “albero infelice” si riferiva a piante selvatiche, non seminate, che non davano frutti e che al massimo producevano bacche non commestibili.
Ma poi si allargava a significati più impegnativi: per esempio diventava “infelice” un albero al quale si impiccava qualcuno.
Ebbene, proprio a quest’albero veniva legato il condannato per essere fustigato a morte. Il condannato veniva spogliato, legato a un albero biforcuto, con la testa inserita proprio nella biforcazione, e lì veniva colpito con le verghe fino alla morte.
La vittima doveva avere il capo coperto, perché la sua morte era offerta in sacrificio agli dei degli inferi. Dunque, il valore di questa esecuzione non era solo punitivo, ma rappresentava una forma di consacrazione del condannato alla divinità.