Nel saggio "Gli ultimi giorni
dell'impero romano" Michel De Jaeghere indaga le ragioni che
portarono al crollo di Roma nel 476. Sottolineando come quello
dell'Urbe fu un suicidio più che un tracollo dovuto a fattori
esterni.

Roma ascese nel fragore e declinò nel
silenzio e negli intrighi. Gli ultimi tempi dell'Impero romano, visti
a secoli di distanza, appaiono come una storia complessa e intricata,
al cui interno si leggono al tempo stesso intrighi, bassezze, piccole
e grandi tragedie umane, sussulti improvvisi e barlumi della gloria
che fu dei "figli di Marte". Abbiamo seguito Roma e la sua
traiettoria come grande potenza dal momento dell'impresa di Cesare e
del suo trionfo, apripista per la trasformazione della Repubblica in
impero. L'Urbe ha poi raffinato la sua capacità di leggere con
taglio penamente "geopolitico" il contesto internazionale,
ma anche la più grande potenza del mondo antico fu destinata al
collasso.
La rotta di Adrianopoli è da
considerarsi la vera cesura per Roma, ha fatto venire meno l'inerzia
favorevole nei confronti delle tribù barbare annullando ogni
illusione circa la possibilità di tenere coeso un impero che poco
piu' di cent'anni prima di Aureliano, il "restauratore"
aveva salvato dall'implosione. Roma ha avuto, come abbiamo visto,
precursori e estremi difensori; principi illuminati e comandanti
imbelli; eroi e traditori; uomini d'arme e teorici politici.
Anche negli ultimi tempi l'Impero
romano d'Occidente, avente come capitale non più un'Urbe relegata a
ombra di sé stessa ma Ravenna, tentò di dimostrare al mondo che i
suoi tempi non erano finiti. Tentò di farlo, soprattutto, grazie
all'estremo tentativo di Ezio, "ultimo dei romani", di
opporsi al declino irreversibile dell'Urbe a cavallo tra la prima e
la seconda metà del V secolo. Figure come Ezio sono emblematiche
della storia che è raccontata nel saggio Gli ultimi giorni
dell'impero romano, scritto dal giornalista e saggista storico
francese Michel De Jaeghere, direttore del bimestrale Figaro
Histoire. De Jaghere separa la storia dalla narrazione, mostra la
compresenza tra un declino sistemico dell'Impero romano d'Occidente,
sempre meno coeso politicamente, etnicamente e militarmente, e la
presenza di poche, luminose figure decise, con il proprio talento o
la forza della disperazione, a svolgere il ruolo di katechon, dei
poteri frenanti che con la loro visione strategica o con azioni
personali hanno potuto influire sulla rapidità con cui si
dispiegavano precisi processi storici tesi all'inevitabile declino
dell'Urbe.
Per De Jaeghere la caduta dell’Impero
Romano d’Occidente più che dall’irruzione ed occupazione di
territori imperiali da parte di popoli germanici fu causata da una
crisi interna sistemica: l'Impero morì per consunzione e collasso
sistemico, non per occupazione militare o distruzione da parte di
agenti esterni. Non fu un boato, ma un silenzioso tonfo quanto
avvenuto nel 476, anno in cui con la deposizione dell’Imperatore
Romolo Augusto (detto “Augustolo” in senso dispregiativo e di
piccolezza, se messo a confronto con l’autorità dei suoi
predecessori) da parte del comandante Odoacre, secondo le varie fonti
di stirpe erula o gotica, de iure scomparve una creatura
politica che de facto era da tempo ridotta a un ectoplasma.
De Jaeghere racconta la spirale
declinante fatta di un'imposizione esagerata di tasse vessatorie sui
cittadini dell'Impero ritenuta vitale per sostenere un apparato
militare sempre più multietnico, di una crescente corruzione
sistemica, del declino dell'autorità politica culminato nel
dispotismo senza regole degli ultimi decenni dell'Impero. L'aumento
dell'insicurezza sociale, politica, economica favorì un declino
demografico su cui si innestò l'inserimento continuo di tribù
barbare chiamate a rimpolpare i ranghi dell'esercito.
Solo in un modo si può estinguere una
civiltà, diceva Arnold Toynbee: attraverso il suo suicidio, che
avviene quando nessuno crede più all'idea che l'aveva edificata. E
questo accadde a Roma. Ove i grandi fari dell'ultimo secolo di storia
imperiale, in Occidente, da Teodosio ad Ezio, appaiono come figure
tragicamente avulse dalla storia che andava inevitabilmente
dispiegandosi. De Jaeghere ha il merito di ricordare
storiograficamente che tra le cause del declino non vi fu la
diffusione del cristianesimo. La tesi secondo cui i cristiani, con il
loro messaggio di amore e di pace, avrebbero reso l'Impero debole di
fronte ai barbari - per non risalire a polemisti pagani dei primi
secoli come Celso - è stata diffusa dall'Illuminismo, con Voltaire e
con lo storico inglese Edward Gibbon.
Ma, come ricorda De Jaeghere, è
totalmente fuorviante: innanzitutto, nei primi decenni del quinto
secolo i cristiani nell'Impero romano d'Occidente erano solo il dieci
per cento della popolazione, risultando la maggioranza nell'Impero
d'Oriente, che resisterà alle invasioni e sopravvivrà per mille
anni. E soprattutto, il cristianesimo aveva penetrato anche i nuovi
entrati nel territorio dell'Urbe. Attraverso il cristianesimo, non a
caso, furono i vigorosi e più giovani popoli barbari a portare
avanti la nostalgia e il ricordo di una romanità che si era
essiccata nel corso dei secoli. Non a caso riproponendo il nome di
Roma a fianco di un nuovo Impero, questa volta "Sacro"
oltre che "Romano" diversi secoli dopo. Non riuscendo però
a costruire che una pallida copia di ciò che seppe diventare l'Urbe
nel lungo millennio che la vide assurgere al dominio del
Mediterraneo. Prima di spegnersi quasi senza colpo ferire.