lunedì 17 ottobre 2022

Il Mare come Mattatoio: La Dieta degli Antichi Greci e la Supremazia del Pesce sulla Carne

In un’epoca in cui la carne animale era simbolo di ricchezza e di devozione sacrificale, il vero cuore della dieta dell’antica Grecia batteva al ritmo delle onde. Contrariamente all’immaginario che potremmo oggi attribuire alla dieta mediterranea antica, i Greci non erano grandi consumatori di carne rossa. Pecore e capre pascolavano certo sulle colline sassose dell’Attica e del Peloponneso, ma la loro carne raramente finiva nei piatti delle masse. Il popolo, invece, si nutriva di ciò che il mare, sempre generoso e mai chiuso, offriva quotidianamente: pesce.

In effetti, per comprendere il rapporto tra i Greci e le proteine animali, è necessario guardare alla geografia quanto alla cultura. La Grecia antica era, ed è tuttora, una penisola frastagliata, punteggiata da isole e coste infinite. Il mare non era solo una via di commercio o un orizzonte poetico; era una fonte primaria di sostentamento. Il pesce – in tutte le sue varietà e forme – rappresentava il pilastro più accessibile e abbondante della dieta quotidiana, soprattutto per le classi popolari.

Nelle agorà delle città-stato, dal Pireo ad Atene fino a Corinto, i banchi del pesce erano tra i più frequentati e affollati. Triglie, orate, cefali e soprattutto tonni rappresentavano una costante, mentre i più fortunati potevano accedere a varietà pregiate pescate in acque lontane, come il pesce spada o le murene. Il tonno, in particolare, era talmente ricercato da essere definito "il prosciutto del mare": veniva essiccato, salato o cucinato fresco. I Greci lo consideravano una prelibatezza, capace di elevare un pasto umile a banchetto degno dei simposi.

Salato o fresco, affumicato o cucinato sulla brace, il pesce era la carne del popolo. Non solo per la disponibilità, ma anche per ragioni economiche e culturali. Gli animali terrestri, come bovini, ovini e suini, erano costosi da allevare e difficili da nutrire in un ambiente caratterizzato da terre aride e pendii impervi. Il sacrificio rituale al tempio era spesso l’unico contesto in cui un cittadino comune poteva accedere a un boccone di carne rossa. La maggior parte della popolazione, quando ne aveva la possibilità, preferiva la carne di maiale – il più accessibile da allevare nei cortili domestici – ma questa rimaneva l’eccezione, non la regola.

Non si trattava solo di sopravvivenza o praticità. Il pesce assumeva un valore anche culturale, quasi spirituale. I poeti comici ateniesi, come Aristofane, ne facevano oggetto di satire e desideri irrefrenabili. I filosofi dibattevano su quale specie fosse la più gustosa. Alcuni ateniesi ricchi pagavano somme esorbitanti per avere il primo pesce del giorno, ancora umido di mare. Al mercato del Pireo, certi esemplari di pesce venivano venduti per il valore di un’intera giornata di paga. L’ossessione per il pesce, insomma, attraversava ogni ceto, diventando il vero barometro gastronomico dell’epoca.

Le pratiche di pesca erano diffuse, ingegnose, e già sorprendentemente organizzate. Reti, ami, fiocine, trappole e barche leggere permettevano ai pescatori di sfruttare al massimo le risorse marine. Persino gli scarti – teste, lische, interiora – venivano riutilizzati per insaporire zuppe o preparare il garos, una salsa di pesce fermentato usata per condire un’infinità di piatti, e predecessore del moderno nuoc mam vietnamita o del colatura di alici campana.

Il paradosso della carne sacra

Quando veniva consumata carne terrestre, essa assumeva quasi sempre un valore rituale. I sacrifici agli dèi – Zeus, Atena, Apollo – non erano meri atti religiosi, ma anche occasioni sociali in cui la comunità intera poteva finalmente godere del raro lusso della carne. Il sacrificio non era solo un dono agli dèi, ma anche un'opportunità redistributiva: una volta offerta la parte divina (il grasso e le ossa bruciati sull'altare), il resto dell’animale veniva cotto e distribuito ai presenti. In questo modo, la carne diventava cibo condiviso, atto sacro e politico allo stesso tempo.

La memoria di un mare onnipresente

Oggi, quando immaginiamo la cucina greca antica, pensiamo forse a olio d’oliva, pane d’orzo e formaggi di capra. Ma a comporre davvero la parte proteica della dieta quotidiana era il mare. Il suo ritmo scandiva non solo la nutrizione, ma anche l’identità. In un mondo in cui la terra era difficile, il mare rappresentava la continuità, la fonte eterna, l’altare liquido da cui attingere ogni giorno.

In definitiva, il mare fu per i Greci ciò che la pastorizia fu per gli Ebrei o l’agricoltura per gli Egizi: la base della sopravvivenza e della civiltà. E anche se la carne di maiale poteva di tanto in tanto comparire sulle tavole, fu il pesce, eterno compagno di viaggio, a nutrire il pensiero, la guerra e la poesia dell’antica Ellade.





domenica 16 ottobre 2022

Quando Non Hai Più Nulla da Perdere

 

Il coraggio estremo che ha riscritto la Storia: da Cesare ai grandi ribelli sull’orlo dell’abisso

C’è un momento, nella vita di ogni uomo che aspiri alla grandezza, in cui ogni via di fuga è preclusa, ogni compromesso è dissolto, ogni maschera abbandonata. È il momento in cui il potere si afferra o si perde per sempre. E nella lunga e turbolenta storia dell’umanità, i personaggi che hanno saputo sfidare il destino senza più nulla da perdere sono anche coloro che, nel bene o nel male, l’hanno plasmato.

Tra tutti, il nome che risuona come un tuono nei corridoi della storia è quello di Gaio Giulio Cesare. Quando il Senato romano, temendo la sua ascesa e le sue riforme populiste, lo dichiarò hostis publicus — nemico dello Stato — Cesare non aveva più alternative intermedie. Era diventato un fuorilegge della Repubblica, un generale braccato. Qualsiasi ritorno a Roma senza armi avrebbe significato processo, confisca, probabilmente la morte.

Eppure, ciò che rende il gesto di Cesare un atto epico e tragico allo stesso tempo non è tanto il contesto quanto la consapevolezza con cui lo compì. Il 10 gennaio del 49 a.C., varcando il fiume Rubicone con la sua legione, pronunciò le parole passate alla leggenda: Alea iacta est — il dado è tratto. Non si trattava solo di un’invasione militare, ma di una dichiarazione d’identità: Cesare non si sarebbe ritirato. Non avrebbe elemosinato il perdono. Era pronto a perdere tutto — la fortuna, la carriera, perfino la vita — pur di prendersi Roma.

In quel gesto si cela l’essenza più brutale e affascinante del potere: la sua conquista assoluta non può coesistere con la prudenza. Cesare possedeva già oro, uomini, gloria militare. Avrebbe potuto fuggire in Oriente, stabilirsi in Gallia o Germania, costruire un suo regno personale. Ma per lui, tutto ciò era indegno. Non sarebbe stato romano. Quell’ambizione che oggi chiamiamo megalomania, allora era una virtù imperiale. Voleva Roma. E accettò di rischiare la rovina pur di stringerla tra le mani.

La storia abbonda di personaggi che, come Cesare, si trovarono sull’orlo dell’abisso, ma invece di arretrare, fecero un passo avanti. Pensiamo a Napoleone Bonaparte, tornato dall’esilio all’Elba per riprendere il controllo della Francia in una marcia audace verso Parigi. Con poche centinaia di uomini, rischiò tutto per un sogno imperiale ormai appassito. O a Giovanna d'Arco, adolescente visionaria che, priva di potere e rango, si lanciò in una guerra contro l’invasore inglese, consapevole che la sconfitta avrebbe significato il rogo.

Persino nel mondo contemporaneo, figure come Nelson Mandela — che trascorse 27 anni in carcere per sfidare l’apartheid — testimoniano come la perdita di ogni bene materiale possa diventare, paradossalmente, il fondamento di una forza incrollabile. Chi non ha più nulla da perdere, può diventare l’uomo o la donna più pericolosa, e più libera, del mondo.

Ma non tutti sono disposti a varcare il Rubicone della loro epoca. Molti si piegano, cercano compromessi, attendono tempi migliori che non arriveranno mai. È il coraggio del "punto di non ritorno" che distingue il grande stratega dal semplice sognatore, il fondatore di imperi dal ribelle dimenticato.

Il gesto di Cesare fu una scommessa totale. La vinse — e la perse. Vinse Roma, ma perse la Repubblica. Diede il via al Principato, ma fu accoltellato da chi, come Bruto, temeva che l’uomo avesse ucciso la libertà. In un tragico contrappasso, Cesare conquistò tutto solo per cadere sotto i colpi della sua stessa grandezza.

Il suo esempio rimane scolpito nella memoria collettiva non per la perfezione, ma per l'audacia. È il simbolo eterno di cosa significa rischiare tutto — e sfidare il destino a viso aperto.

In un mondo che premia la cautela e punisce l’eccesso, forse c’è ancora qualcosa da imparare da chi non aveva più nulla da perdere.



sabato 15 ottobre 2022

L’oro d’Oriente e il declino dell’Occidente: il commercio con l’India e la crisi monetaria dell’Impero Romano


In un’epoca in cui le grandi potenze globali cercano equilibrio tra ricchezza e debito, risuona con forza una lezione che proviene dal cuore stesso dell’antichità imperiale: l’Impero Romano, simbolo di potere e opulenza, rischiò il collasso finanziario per via della sua stessa sete di lusso. Alla radice della crisi, un nemico silenzioso e affascinante: il commercio con l’Oriente.

Tra il I secolo a.C. e il III secolo d.C., Roma sviluppò un rapporto commerciale tanto prospero quanto pericoloso con l’India e la Cina. Spezie, pietre preziose, seta, perle e profumi giungevano via terra e via mare, affluendo nei mercati imperiali e nei palazzi patrizi. Il porto egiziano di Berenice sul Mar Rosso divenne il crocevia strategico di questa rete mercantile: da lì, navi romane salpavano seguendo i venti monsonici stagionali, scoperti grazie alla testimonianza di un marinaio indiano naufragato e salvato dai Romani, che rivelò i segreti della navigazione oceanica.

Questo cambiamento rivoluzionò la logistica dei commerci. Gli intermediari arabi e persiani furono tagliati fuori, rendendo i traffici più diretti ma anche più intensi. Le importazioni crebbero esponenzialmente, ma non vi fu un flusso equivalente di esportazioni: Roma aveva poco da offrire in cambio, se non il metallo prezioso che coniava le sue monete. Come osservò già Plinio il Vecchio, la città stava "svuotando i suoi forzieri per i piaceri dell’Oriente".

La bilancia commerciale risultava cronicamente passiva, e le miniere d’argento – in particolare quelle iberiche – iniziarono a mostrare segni di esaurimento già nella seconda metà del II secolo. Secondo alcune stime moderne, ogni anno uscivano dai confini imperiali fino a 100 milioni di sesterzi in oro e argento destinati a pagare stoffe di seta, pepe, cannella, incenso e altri beni di lusso orientali. Un'emorragia silenziosa, inarrestabile, che indebolì progressivamente le fondamenta monetarie dell’Impero.

Con la crisi dell'argento, lo Stato iniziò a degradare la qualità delle proprie monete. Durante il regno di Caracalla (211–217 d.C.), il denario fu ufficialmente sostituito dall’antoniniano, inizialmente con un contenuto d’argento di circa il 50%, ma destinato a scendere rapidamente fino al 2-5% nel III secolo. Il resto era rame. Questa svalutazione monetaria causò un’iperinflazione senza precedenti, un collasso della fiducia nei mezzi di scambio e una spirale di instabilità politica.

La situazione divenne talmente insostenibile che i soldati, colonna portante del potere imperiale, iniziarono ad assassinare gli imperatori incapaci di garantire paghe adeguate, insediando al loro posto figure più compiacenti o facoltose. La “crisi del III secolo” vide oltre 20 imperatori in pochi decenni, molti dei quali assassinati dalle loro stesse truppe.

Nel tentativo di arginare il caos, l’imperatore Diocleziano (284–305 d.C.) emanò l’Editto sui Prezzi Massimi, cercando di fissare limiti ai prezzi di beni e salari per contrastare l’inflazione galoppante. Il provvedimento, tuttavia, si rivelò inapplicabile e spesso ignorato, alimentando ulteriori tensioni economiche e sociali.

Fu Costantino il Grande a imprimere un cambio di rotta duraturo. Abbandonata la svalutata moneta d’argento, introdusse una nuova valuta aurea di alta purezza: il solido. Questa moneta stabile divenne la pietra angolare dell’economia imperiale per oltre un secolo. È da questo termine, "solido", che deriva etimologicamente anche la parola “soldato”, a indicare il legame tra potere militare e pagamenti in oro.

Eppure, nonostante le riforme, i danni erano già profondi. L’Occidente romano non si riprese mai del tutto. Nel V secolo, l’impero d’Occidente collassò sotto il peso di pressioni interne ed esterne, mentre la parte orientale – più ricca e vicina ai flussi mercantili asiatici – sopravvisse per altri mille anni come Impero Bizantino.

La parabola del denaro romano offre una lezione intramontabile: nessuna civiltà, per quanto potente, può permettersi di trascurare i propri equilibri economici. Il lusso e l’esotismo possono sedurre, ma quando vengono pagati con la ricchezza reale della nazione – metallo, fiducia, stabilità – diventano il preludio del disastro.

L’Oriente incantò Roma, ma a caro prezzo. Un prezzo pagato con il sangue degli imperatori e la disgregazione della moneta, simbolo della civiltà stessa.



venerdì 14 ottobre 2022

Scipione l’Africano e il rifiuto del piacere: così nacque la leggenda di un generale romano

Nel 209 a.C., un giovane condottiero conquista Cartagine Nova e mostra al mondo il potere della virtù romana

Nel cuore della Seconda guerra punica, con Roma ancora scossa dalle devastazioni inflitte da Annibale in Italia, un giovane generale appena ventiseienne compie una delle imprese militari più audaci e determinanti dell’epoca: la conquista di Cartagine Nova (l’odierna Cartagena), capitale cartaginese in Iberia. Il suo nome era Publio Cornelio Scipione, e da quel giorno il suo destino si sarebbe intrecciato con la leggenda.

La presa della roccaforte nel 209 a.C. non fu soltanto un colpo magistrale sul piano strategico, ma anche il banco di prova morale di un uomo destinato a diventare l’emblema della virtus romana: la forza interiore che distingue il comandante illuminato dal semplice vincitore.

Dopo la caduta della città, i soldati romani, entusiasti per la vittoria e devoti al loro giovane condottiero, vollero onorarlo con doni. Tra i tributi presentati vi fu una giovane fanciulla di nobile lignaggio, descritta dallo storico greco Polibio come dotata di una straordinaria bellezza. Conoscevano l’inclinazione di Scipione per le donne — o almeno così pensavano — e immaginavano che un tale dono potesse gratificarlo.

Ma la risposta del generale fu spiazzante. Non si lasciò incantare dalla bellezza della giovane, né accettò il privilegio che il potere gli avrebbe facilmente concesso. Al contrario, dichiarò che "ciò che in tempo di riposo è dilettevole, in tempo d’azione diventa un pericolo". La sua decisione fu netta: restituì la giovane al padre, chiedendo che fosse data in sposa a un concittadino, onorando così le leggi della decenza e del rispetto.

Quell’episodio, tramandato da Polibio e ripreso da altri storici antichi, divenne molto più che un semplice aneddoto morale. Fu un momento fondativo nella narrazione pubblica della figura di Scipione. In un’epoca in cui i comandanti potevano trasformarsi in tiranni, approfittando delle ricchezze e dei corpi dei vinti, egli scelse la moderazione, incarnando il modello ideale del comandante romano: giovane, vittorioso, ma anche temperante e giusto.

Fu anche un atto politico: nel rispetto della nobiltà iberica e delle sue consuetudini, Scipione pose le basi per la lealtà delle popolazioni locali, un elemento cruciale nella rapida conquista del resto della penisola nei tre anni successivi.

Il rifiuto della fanciulla non fu un gesto isolato. Tutta la carriera di Scipione — che in seguito sarebbe stato chiamato “Africano” per la sua vittoria finale su Annibale a Zama — è costellata da momenti in cui disciplina, lungimiranza e autocontrollo hanno prevalso sulla vanità del trionfo. Era un uomo consapevole del valore della propria immagine pubblica, ma anche profondamente convinto che la forza morale fosse la base della forza militare.

All’indomani della conquista di Cartagine Nova, Scipione impose regole severe ai suoi uomini contro il saccheggio indiscriminato, organizzò una distribuzione ordinata del bottino e garantì la protezione delle popolazioni locali. In breve tempo, riuscì a costruire un modello di occupazione e controllo territoriale che anticipava le strategie espansionistiche di Roma nei secoli successivi.

Il gesto di Scipione non fu solo un atto privato di rinuncia: fu una dichiarazione di intenti, un manifesto del tipo di potere che Roma voleva esportare nei territori conquistati. La sua moderazione fu letta, già dai contemporanei, come un segno di grandezza d’animo, e alimentò il mito di un generale che sapeva guidare non solo le legioni, ma anche se stesso.

In un tempo in cui i leader politici e militari spesso cadevano vittima delle proprie ambizioni, il giovane Scipione mostrò che il comando non si misura solo con le vittorie sul campo, ma con la capacità di resistere alle lusinghe del potere.

Cartagine Nova non fu solo una città espugnata. Fu il teatro dove un generale romano dimostrò che la disciplina personale è la prima conquista di ogni grande comandante.


giovedì 13 ottobre 2022

Perché il sale era un tesoro nell’antichità: molto più di un semplice condimento

Dal Mediterraneo alle rotte transahariane, ecco perché il “bianco oro” era alla base della civiltà

Nel mondo antico, pochi beni erano così essenziali — e così preziosi — come il sale. A dispetto della sua apparente semplicità, questa sostanza cristallina ha avuto un ruolo centrale nello sviluppo di economie, imperi, vie commerciali e persino nella sopravvivenza delle comunità umane. Ma perché il sale aveva tanto valore, se tecnicamente bastava lasciare evaporare l’acqua del mare per ottenerlo?

La risposta, come spesso accade nella storia, risiede in una complessa intersezione tra domanda, tecnologia, geografia e potere.

Ben prima che l’elettricità rendesse possibile la refrigerazione, il sale era l’unico metodo efficace per conservare alimenti deperibili. Salare carne, pesce e persino alcuni ortaggi permetteva di consumare cibo anche nei lunghi mesi invernali o durante carestie e campagne militari. In un mondo senza supermercati, la possibilità di conservare il cibo era una questione di vita o di morte.
Una famiglia poteva necessitare di decine di chili di sale all’anno, e non solo per insaporire: la salagione, l’affumicatura e l’essiccazione con sale erano tecniche fondamentali per garantire la sicurezza alimentare.

È vero che il sale può essere ottenuto facendo evaporare l’acqua di mare, ma non ovunque ciò era praticabile. La produzione di sale marino richiede ampie distese pianeggianti, climi caldi e secchi, e accesso stabile al mare. L’Italia, ad esempio, ha beneficiato per secoli delle sue saline costiere — come quelle di Cervia, Trapani o Margherita di Savoia — ma regioni montane, continentali o con clima umido non potevano permettersi tale lusso.

In alternativa, si poteva estrarre il sale dalle miniere sotterranee: veri e propri giacimenti fossili di salgemma, resti di antichi bacini marini prosciugati. Alcune di queste miniere — come quelle spettacolari di Wieliczka, in Polonia, o di Hallstatt, in Austria — sono monumenti storici scavati a mano, con gallerie lunghe chilometri, cappelle scolpite nel sale e condizioni di lavoro estenuanti. Lo sforzo richiesto per cavare il sale ne aumentava ulteriormente il valore.

Poiché non tutti avevano accesso diretto a saline o miniere, il sale divenne una merce universale: facilmente trasportabile, durevole, essenziale. Popoli che vivevano lontano dai centri di produzione lo importavano a caro prezzo.
Gli antichi Romani pagavano parte della solda dei legionari in sale — da qui, secondo una teoria etimologica, deriverebbe la parola “salario”. In Africa occidentale, il sale era scambiato alla pari con l’oro sulle rotte carovaniere del Sahara. Nell’antica Cina, fu uno dei pilastri su cui l’Impero fondò il proprio sistema fiscale.

Chi possedeva il controllo del sale, deteneva potere economico e politico. Le gabelle sul sale, come quella imposta in Francia nel Medioevo, provocarono tumulti e rivolte. In India, la famosa “Marcia del Sale” guidata da Gandhi nel 1930 fu un atto simbolico di resistenza al monopolio coloniale britannico.

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, il sale non era un bene di lusso. Era relativamente accessibile nelle aree produttrici, ma estremamente richiesto e talvolta costoso altrove. Non era “incredibilmente caro”, ma era strategicamente vitale. Il prezzo era spesso calmierato o regolamentato, proprio perché la società non poteva permettersi di farne a meno.

Ogni sacco di sale trasportato su carri, dorsi di cammelli o carrette fluviali non rappresentava solo una spezia, ma una garanzia di sopravvivenza, un simbolo di stabilità, una moneta di scambio.

Il sale ha tracciato rotte commerciali e determinato la fondazione di città: Salonicco deve il suo nome proprio a questa risorsa. La Via Salaria, in Italia, collegava Roma con le saline del litorale adriatico. Le rotte del sale collegavano il Maghreb con Timbuctù, la Bretagna con il Sacro Romano Impero, la Cina con la Manciuria.

Non era solo il “sapore della vita”: era l’asse intorno al quale ruotavano economia, geopolitica e sopravvivenza.

Oggi, il sale è disponibile ovunque e a costi irrisori. Ma il fatto che per millenni sia stato oggetto di monopolio, tributi e guerre, è un memento silenzioso del suo valore storico. E ci ricorda che anche le sostanze più comuni possono, in un altro tempo e luogo, diventare pilastri di intere civiltà.



mercoledì 12 ottobre 2022

2500 a.C.: il primo medico che osò dire “non c’è cura”



In un’epoca remota in cui l’umanità guardava alle stelle per comprendere il proprio destino e invocava gli dèi per curare i mali del corpo, un anonimo medico egizio osò scrivere parole che ancora oggi colpiscono per la loro spiazzante onestà: “Non esiste una cura.”
Lo fece nero su bianco, intorno al 2500 a.C., redigendo uno dei testi medici più antichi e straordinari della storia: il Papiro Edwin Smith.

Non si trattava di un testo religioso, né di un manuale di incantesimi. Al contrario, questo trattato – sopravvissuto fino a noi grazie a una copia del XVI secolo a.C. – si distingue per il suo tono clinico, sistematico e per certi versi sorprendentemente moderno. Scritto in ieratico, una forma corsiva della scrittura geroglifica, il papiro analizza 48 casi medici, perlopiù legati a ferite, fratture e traumi del corpo umano. Ma tra essi, al caso numero 45, si cela un passaggio tanto essenziale quanto epocale: la prima descrizione documentata di un tumore al seno.

Nel caso 45, l’autore si concentra su quella che oggi definiremmo una lesione neoplastica mammaria. Scrive di “tumori al petto”, descrivendoli come “grandi, diffusi e duri”, assimilabili al tatto a “una palla di stracci” o al frutto ancora acerbo dell’emat, probabilmente una varietà di fico o dattero. Il confronto con un oggetto solido e freddo mostra un livello di osservazione non comune per l’epoca. Non si invocano spiriti maligni né si fa riferimento a possessioni divine: la malattia è osservata, analizzata e registrata in termini fisici, empirici, sensoriali.

Ancora più sorprendente è la struttura metodica che l’autore applica a ogni caso: diagnosi, prognosi e raccomandazioni terapeutiche. Una prassi che anticipa di millenni l’approccio clinico occidentale. In molti casi, l’autore propone medicazioni, impacchi, manipolazioni o interventi. Ma per il tumore al seno, l’ammissione è netta, spoglia di eufemismi: “non c’è cura”.

In un contesto culturale dove magia, medicina e religione erano intrecciate a doppio filo, la rinuncia a prescrivere incantesimi o trattamenti miracolosi è rivoluzionaria. Questo medico, che probabilmente operava sotto l’egida di un tempio o in un contesto palaziale, non cerca di mascherare la sua impotenza con riti o placebo. Anzi, la riconosce, la nomina e la registra per la posterità.

Questa dichiarazione di limite umano di fronte alla malattia – e alla morte – è un gesto di straordinaria integrità intellettuale. Implica, implicitamente, che non tutto è spiegabile o dominabile, che la scienza, pur giovane, ha confini precisi. Ed è proprio in questa consapevolezza che risiede la modernità di questo frammento: nel rifiuto dell’onnipotenza, nella lucida accettazione dell’ignoto.

Il documento, oggi custodito presso la Biblioteca della New York Academy of Medicine, porta il nome di Edwin Smith, l’antiquario americano che lo acquistò nel 1862 in Egitto. Ma fu James Henry Breasted, celebre egittologo e fondatore dell’Oriental Institute di Chicago, a tradurlo e pubblicarlo per la prima volta nel 1930.

Gli studiosi ritengono che il papiro sia la copia di un manoscritto ancora più antico, risalente appunto alla V Dinastia (intorno al 2500 a.C.), scritto da un medico probabilmente attivo a Menfi, la capitale dell’Antico Regno. Alcuni attribuiscono l’opera al leggendario Imhotep, architetto e visir del faraone Djoser, divinizzato secoli dopo proprio come dio della medicina.

Quell’antico caso clinico ci ricorda che il cancro non è una malattia moderna, come spesso erroneamente si pensa. Ha accompagnato l’umanità fin dai suoi albori, e da oltre 4.000 anni la medicina cerca di comprenderlo, arginarlo e, dove possibile, curarlo.
Oggi, grazie alla ricerca scientifica e alla diagnosi precoce, molti tumori al seno sono curabili, con percentuali di sopravvivenza sempre più elevate. Eppure, il silenzioso rispetto contenuto in quella frase millenaria – “non esiste una cura” – resta un monito sull’umiltà necessaria nella pratica medica.

Il medico egizio che la scrisse non sapeva che, millenni dopo, le sue parole avrebbero resistito al tempo. Ma ci ha lasciato un’eredità potente: un esempio di rigore, osservazione e onestà che ancora oggi possiamo riconoscere come scienza.


martedì 11 ottobre 2022

Nell’antica Roma, il fallo era sacro: quando l’erotismo era religione e protezione

Nel nostro mondo moderno, l’immagine di un fallo disegnato su un muro è considerata un atto vandalico, una burla adolescenziale da rimuovere il prima possibile. Ma nell’antica Roma — una civiltà ossessionata dal potere, dalla protezione e dalla fertilità — la stessa immagine assumeva un valore radicalmente diverso. Non solo non era considerata oscena, ma era oggetto di culto, simbolo apotropaico e strumento di difesa mistico-religiosa.

In un sorprendente ribaltamento del nostro attuale sistema di valori, i Romani vedevano nella raffigurazione del fallo una forza positiva, un talismano contro le forze maligne. Il fascinum — come veniva chiamato l'amuleto fallico — era onnipresente: lo si trovava sulle porte delle abitazioni, sulle lucerne a olio, appeso ai colli dei bambini, o incastonato nei mosaici e nelle sculture. Alcuni esemplari, come quelli rinvenuti a Pompei, sono vere opere d’arte: campanelli eolici in bronzo a forma di falli alati, amuleti multipli montati su strutture decorate, figure di Mercurio in forma fallica con campanelle attaccate alle estremità.

Il culto del fallo era strettamente connesso al dio Fascinus, una divinità minore ma potente, incaricata di proteggere i Romani dalla fascinatio, ovvero l’influenza maligna e invidiosa, un’idea non distante dal concetto di “malocchio”. Le stesse Vestali, le custodi della sacra fiamma di Roma, erano incaricate della venerazione del fascinum populi Romani — il fallo sacro del popolo romano, conservato nel tempio di Vesta.

Lo scrittore cristiano Agostino, pur condannando con severità questi riti, ne fornisce un resoconto prezioso nel suo De Civitate Dei: durante i riti di Liber Pater — divinità dell'ebbrezza e della fecondità, assimilata a Dioniso — un fallo gigantesco veniva posto su un carro e portato in processione attraverso i campi e poi in città, in un rituale mistico finalizzato a garantire fertilità e protezione contro l’invidia distruttiva.

L’uso del fallo come oggetto protettivo non si limitava ai riti religiosi. Secondo Plinio il Vecchio, un’immagine fallica veniva appesa sotto il carro trionfale dei generali vittoriosi per proteggerli dall’odio e dall’invidia del popolo. Nei graffiti pompeiani, invece, il fallo era impiegato con leggerezza e ironia, come nel celebre esempio: “Hospes, feliciter! Hic ego cum ancilla puella bene futui” (“Ospite, benvenuto! Qui io ho fatto del buon sesso con la servetta”). Un gesto che, a dispetto del nostro sguardo moderno, non era offensivo, bensì familiare, quasi augurale.

Ma la personificazione più estrema di questa ossessione fallica era Priapo, un dio rurale di origini greche, successivamente adottato dai Romani. Figlio di Afrodite e Dioniso, Priapo incarnava la virilità e la potenza generativa della natura. Maledetto per la sua sfacciata lussuria e il suo aspetto grottesco, veniva raffigurato come un nano dal pene costantemente eretto, spesso colorato di rosso, e usato come spaventapasseri nei campi. Le sue statue, posizionate nei giardini, erano temute tanto quanto venerate: chi osava rubare i frutti del giardino rischiava, secondo la leggenda, un’aggressione sessuale da parte del dio stesso.

Ovidio, nei suoi Fasti, descrive con tono ironico e provocatorio il tentativo di Priapo di violentare una ninfa, sventato da un asino che ragliando sveglia tutti. Più tardi, nella raccolta Priapea, il dio diventa protagonista di una letteratura popolare satirica, in cui minaccia chiunque si avvicini alle sue proprietà con ogni genere di vendetta sessuale.

Queste pratiche, per quanto sconcertanti per il nostro sguardo contemporaneo, non erano marginali. Esse permeavano la vita quotidiana, religiosa e politica della Roma antica. Non solo il fallo era onnipresente, ma possedeva uno statuto culturale e simbolico ben preciso: era il sigillo della fertilità, lo scudo contro le forze oscure, e un marchio di potere, sociale e divino.

Oggi, l’unico luogo al mondo in cui sopravvive un analogo sistema simbolico è il Bhutan, dove i falli dipinti adornano le case per proteggere gli abitanti dagli spiriti maligni e dai pettegolezzi. Una continuità che, seppur geograficamente distante, offre un raro specchio di quella Roma arcaica che non temeva l’anatomia, ma anzi, la venerava.

In un’epoca in cui il corpo è spesso censurato e la sessualità relegata alla sfera privata, il mondo romano ci ricorda che ciò che oggi consideriamo osceno può, in altri contesti, rappresentare il sacro. E forse ci invita a chiederci quanto della nostra visione sia davvero universale — o solo il riflesso dei nostri tabù.