lunedì 10 ottobre 2022

COM’ERA UN APPARTAMENTO NELL’ANTICA ROMA? UNA VITA TRA SOPPALCHI, BRACIERI E PANE NEL VINO


Roma, 14 d.C. — Se vi immaginate un appartamento romano come un moderno bilocale con cucina, bagno e soggiorno, vi conviene rivedere le aspettative. Nell’antica Roma, la maggior parte dei cittadini non viveva rinchiusa tra quattro mura, ma immersa nella città stessa, che fungeva da estensione del proprio spazio vitale. Le abitazioni private erano essenzialmente luoghi dove dormire. Per tutto il resto — mangiare, lavarsi, socializzare, perfino lavorare — c’era l’urbe.

Il cuore dell’edilizia abitativa romana per la gente comune era l’insula, una sorta di palazzina multipiano in muratura, a volte anche in legno o materiali meno resistenti, spesso soggetta a incendi e crolli. Le insulae si sviluppavano in altezza — in certi casi fino a sei piani — per rispondere al problema del sovraffollamento urbano. Al piano terra vi erano i negozi (le tabernae), con i retrobottega e soppalchi destinati a dormitori. I piani più alti ospitavano alloggi via via più piccoli, meno salubri e meno costosi.

Le famiglie modeste, artigiani, schiavi e liberti con pochi mezzi abitavano ambienti minuscoli, composti spesso da una sola stanza. Mobili? Ridotti all’essenziale: uno o due bauli per riporre vestiti e oggetti di valore, qualche sgabello, forse un letto. In molti casi si dormiva direttamente su stuoie o materassi poggiati a terra. Il riscaldamento era affidato a un braciere, che fungeva anche da rudimentale cucina, sebbene cucinare in casa fosse raro: mancavano veri spazi per farlo, e il rischio di incendio era sempre dietro l’angolo.

Per i più fortunati, al primo piano dell’insula si poteva trovare qualche appartamento con più stanze. Ma attenzione: anche in questi casi non si trattava mai di abitazioni autosufficienti. Non c’era bagno e non c’era cucina. L'acqua doveva essere presa alle fontane pubbliche; per i bisogni fisiologici si ricorreva alle latrine comuni o a vasi da notte che venivano poi svuotati — spesso in strada o nei canali di scolo. E i servizi igienici erano spesso condivisi da decine, se non centinaia, di persone.

La giornata tipo di un romano iniziava presto. Dopo essersi recato alle latrine pubbliche, consumava una colazione frugale: solitamente pane inzuppato in vino annacquato. Lavorava fino a mezzogiorno, poi si dedicava alla vita sociale e ai bagni pubblici, le celebri terme, uno degli spazi più democratici della città: accessibili a tutti, dagli schiavi ai senatori. Qui ci si lavava, ci si radeva, si prendeva parte a massaggi, esercizi ginnici o semplicemente si conversava.

Il termopolium, un mix tra taverna e fast food, costituiva la principale fonte di alimentazione per la maggioranza dei cittadini. Qui si acquistavano piatti pronti: porridge, pane, verdure cotte, formaggi freschi, uova, talvolta carne o pesce. I cibi si consumavano sul posto o si portavano a casa per riscaldarli sul braciere. Pranzare e cenare in casa erano atti intimi ma secondari. Il centro della convivialità era fuori, nelle strade, nei mercati, nei fori.

Le abitazioni aristocratiche, le celebri domus, offrivano una realtà completamente diversa: cortili interni, stanze affrescate, mosaici, giardini, e un apparato di servi che colmava le mancanze strutturali. Ma erano una rarità, privilegio di una ristretta élite. Per tutti gli altri, l'abitazione era un rifugio, mai un centro di vita.

In sintesi, si può dire che per i Romani la città era casa, e la casa era solo letto. Un’inversione radicale rispetto alla nostra quotidianità moderna. Eppure, da questa sobrietà funzionale emerge un modello urbano denso di relazioni sociali, di luoghi pubblici vissuti, di comunità tangibile. Lontani dai nostri divani, ma forse più vicini gli uni agli altri.



domenica 9 ottobre 2022

La storia di Lucio Cornelio Silla è una delle pagine più complesse e controverse della Roma antica, un racconto che mescola astuzia politica, brutalità e, paradossalmente, un certo tipo di "rinascita" personale. Ma se guardiamo più da vicino, la narrazione che hai presentato potrebbe non rispecchiare del tutto i dettagli storici e l’evoluzione della figura di Silla.

Lucio Cornelio Silla fu un uomo che incarnò, senza dubbio, una delle fasi più turbolente e sanguinose della Repubblica Romana. La sua ascesa al potere non fu una questione di dissolutezza o di disinteresse per le sorti della sua città, ma un gioco di potere implacabile, una spinta da parte di un uomo che sentiva la necessità di ripristinare un ordine che, a suo avviso, era stato minato dalla crescente instabilità politica e dalle rivolte popolari.

Silla non marciò su Roma solo per uccidere i suoi nemici, ma con l’intento ben preciso di ripristinare l'autorità del Senato contro le forze popolari rappresentate dai tribuni e dalle riforme che minavano l'antico equilibrio della Repubblica. Le sue liste di proscrizione furono notoriamente brutali, ma non solo per vendetta personale; si trattava di un atto di purificazione politica che, secondo lui, avrebbe riportato Roma alla sua antica grandezza.

Il suo periodo di dittatura non fu, come scritto, un semplice "ritiro in campagna" all'insegna del piacere. Dopo aver consolidato il potere, Silla iniziò un lungo processo di riforme che toccò profondamente la costituzione politica di Roma, cercando di restaurare il Senato come corpo centrale del governo, mettendo fine all'era delle riforme popolari portate avanti dai Gracchi e dai tribuni. La sua repubblica restaurata fu un passo indietro verso una consolidata oligarchia senatoria, che eliminava qualsiasi altra forma di potere popolare, inclusi i tribuni della plebe.

Quando Silla si ritirò dalla dittatura, lo fece non per cercare una vita di eccessi o svaghi, ma come una sorta di dichiarazione di controllo assoluto su un sistema che aveva plasmato a sua immagine e somiglianza. Silla non si nascose in campagna per dimenticare la sua vita politica, ma decise di lasciare il potere, forte della sua vittoria. Il suo ritiro fu un atto che pochi altri avrebbero osato compiere in un periodo storico come quello, dove i dittatori solitamente morivano o erano costretti a tenere il potere fino alla fine.

La sua morte avvenne nel 78 a.C., due anni dopo il suo ritiro, non tra feste e orgie, ma segnò la fine di un uomo che, a dispetto della sua brutalità, aveva lasciato un segno indelebile sulla politica di Roma.

Se Silla ha voluto ritirarsi in un angolo di Roma, lontano dai riflettori, è probabile che la sua morte avvenne in un momento in cui la serenità personale non era più possibile da raggiungere. La violenza della sua carriera e il peso delle sue decisioni lo accompagnarono fino alla fine.

La leggenda che lo vuole vivere una vita dissoluta dopo il ritiro potrebbe essere più il frutto di una distorsione storica, un’interpretazione della sua figura a posteriori, che cerca di umanizzare l'uomo dietro il dittatore. Tuttavia, è innegabile che Silla rimanga una delle figure più enigmatiche e, in certi aspetti, tragiche della storia romana. La sua vita racconta come, pur nella sua brutalità, si possa giungere a una sorta di "rinascita" politica, ma mai veramente personale, dato il peso delle sue azioni.

Alla fine, Silla ci lascia una lezione, non tanto sul "potere assoluto", ma sulla fragilità umana nel gestirlo. La storia di Silla non è solo quella di un dittatore che marciò su Roma, ma di un uomo che dovette affrontare i suoi fantasmi interni, cercando una forma di equilibrio che, alla fine, non riuscì mai a trovare veramente.


sabato 8 ottobre 2022

I Romani nel Deserto: scoperti tre accampamenti militari grazie a Google Earth

Una scoperta rivoluzionaria nel cuore dell’Arabia settentrionale rivela le tracce di una campagna militare romana finora ignota, sollevando interrogativi sulle reali modalità di annessione del Regno Nabateo. A guidare la rivelazione: le immagini satellitari e la tenacia dell’archeologia contemporanea.

Con un occhio attento rivolto al passato e uno strumento moderno come Google Earth, un team di archeologi dell’Università di Oxford ha identificato tre accampamenti militari romani nel deserto dell’Arabia settentrionale. La scoperta, pubblicata sulla rivista Antiquity, offre uno squarcio inedito su una possibile campagna militare condotta da Roma all’alba del II secolo d.C., gettando nuova luce su un’epoca considerata, finora, relativamente pacifica nella transizione del potere tra il Regno Nabateo e l’Impero.

Gli accampamenti, scoperti nel corso del progetto Endangered Archaeology in the Middle East and North Africa (EAMENA) e poi documentati fotograficamente da Aerial Archaeology in Jordan (APAAME), sono disposti lungo una direttrice rettilinea che collega l’odierna Bayir, in Giordania, alla città di Dûmat al-Jandal, oggi in Arabia Saudita. Una posizione che non pare casuale. Il tracciato si sviluppa lungo una rotta carovaniera secondaria, scelta apparentemente per eludere il ben più trafficato Wadi Sirhan, e conferisce alla manovra un chiaro carattere strategico, forse finalizzato a cogliere di sorpresa un nemico impreparato.

“Questi accampamenti sono straordinari non solo per la loro conservazione ma per ciò che implicano dal punto di vista storico e militare,” ha dichiarato il dottor Michael Fradley, leader del progetto, che per primo ha individuato le strutture servendosi delle immagini satellitari. “La loro tipica forma a ‘carta da gioco’ — rettangolare, con ingressi opposti su ciascun lato — è un marchio inconfondibile dell’esercito romano.”

Il contesto storico in cui si colloca questa scoperta è particolarmente significativo. Dopo la morte del re nabateo Rabbel II Soter nel 106 d.C., la storiografia romana ha tramandato l’annessione del regno come un evento indolore e diplomaticamente risolto. Ma la presenza di questi accampamenti temporanei, distanziati tra loro tra i 37 e i 44 chilometri, suggerisce tutt’altro: una campagna militare strutturata e tutt’altro che incruenta. “La distanza tra i campi è troppo grande per la fanteria — osserva Fradley —, il che implica l’impiego di unità montate, forse cavalleria o cammellieri, capaci di spostarsi rapidamente nel deserto.”

Un dettaglio non secondario è la notevole differenza dimensionale tra il campo più occidentale e gli altri due: il primo appare significativamente più grande. Per il professor Andrew Wilson, coautore dello studio, questa asimmetria apre scenari ancora inesplorati: “Le forze potrebbero essersi divise? Una metà ha proseguito e l’altra è rimasta come supporto logistico? Oppure l’armata si è riorganizzata per affrontare uno scontro non documentato?” Il campo più grande potrebbe aver funzionato da hub per l’approvvigionamento idrico, cruciale in un ambiente tanto ostile quanto quello desertico.

Il dottor Mike Bishop, studioso delle tattiche militari romane, ha accolto la scoperta con entusiasmo: “I forti ci dicono come Roma ha amministrato i suoi territori. Gli accampamenti temporanei, invece, rivelano come li ha conquistati. Questa scoperta ci costringe a ripensare alla rapidità e alla forza con cui l’Impero si è mosso per assicurarsi un regno strategicamente vitale.”

Ma, come spesso accade nella scienza archeologica, ogni risposta genera nuove domande. La datazione esatta degli accampamenti resta da confermare con indagini sul campo, così come il numero complessivo delle strutture. La regolarità della loro disposizione e le distanze suggeriscono che altri campi potrebbero attendere sotto la sabbia, forse nella zona di Bayir, dove sorge anche una stazione di pozzi di epoca omayyade — un indizio della continuità d’uso della via carovaniera nel tempo.

Al centro della vicenda c’è un paradosso storiografico: Roma ha sempre narrato l’annessione del Regno Nabateo come un affare pacifico. Eppure questi accampamenti, silenziosi e ordinati nella vastità del deserto, sembrano raccontare un’altra storia. Una storia di movimento rapido, di strategie nascoste e, forse, di guerra.

Se confermata, la scoperta costituirebbe una delle più importanti revisioni della storia imperiale romana nel Vicino Oriente degli ultimi decenni. E ancora una volta, a scrivere le nuove pagine della storia non è solo la terra, ma anche il cielo — o meglio, la sua immagine riflessa in pixel da un satellite orbitante. Una moderna via Appia dell’indagine archeologica, dove il mouse e la lente sostituiscono piccone e pennello.

Che altri campi giacciano ancora sepolti sotto la sabbia, o che la storia della campagna romana in Arabia sia stata più cruenta di quanto Roma abbia voluto ricordare, rimane ancora oggetto di indagine. Ma una cosa è certa: il deserto, apparentemente vuoto, ha cominciato a parlare. E la sua voce, amplificata dai satelliti, risuona forte fino ai nostri giorni.



venerdì 7 ottobre 2022

La “Porta dell’Inferno” non era magia, ma scienza: svelato il segreto letale del Plutonio di Hierapolis

 

In un angolo polveroso dell’antica Anatolia, lì dove sorgevano le rovine maestose della città greco-romana di Hierapolis, la leggenda di un portale per gli inferi ha sfidato per secoli la comprensione umana. Un luogo tanto temuto quanto venerato, descritto dagli storici antichi come dimora di poteri oscuri, in grado di uccidere ogni essere vivente che osasse avvicinarsi. Ma oggi, grazie alla scienza, il velo di mistero che avvolgeva la cosiddetta “Porta dell’Inferno” è stato finalmente sollevato.

Il “Plutonio” – così era conosciuto il santuario dedicato al dio romano degli inferi, Plutone – altro non era che una grotta incastonata alla base delle gradinate di un teatro antico, da cui esalavano fumi mefitici capaci di soffocare qualsiasi animale offerto in sacrificio. Eppure, i sacerdoti del culto, gli eunuchi di Plutone, sembravano in grado di attraversare il luogo indemni, come se protetti da una forza divina. O almeno così raccontavano i cronisti dell’epoca, come lo storico greco Strabone, che testimoniava la morte istantanea di tori al contatto con quei vapori infernali, mentre i ministri del culto ne uscivano illesi.

Oggi, la spiegazione arriva da un gruppo internazionale di scienziati guidati dal vulcanologo tedesco Hardy Pfanz, dell’Università di Duisburg-Essen, che ha analizzato le emissioni del sito con strumenti di misurazione moderni. I risultati parlano chiaro: la grotta sorge sopra una fessura geotermica attiva, da cui fuoriesce anidride carbonica (CO₂) di origine vulcanica in concentrazioni letali. E il comportamento di questo gas spiega perfettamente la “magia” dei riti antichi.

La CO₂ è più pesante dell’aria e, in assenza di vento o turbolenze termiche, tende ad accumularsi al suolo come una nebbia invisibile. Le rilevazioni effettuate mostrano che la concentrazione raggiunge il picco letale all’alba: nei primi 40 centimetri dal terreno, la saturazione può superare il 35% dell’aria, sufficiente a provocare la morte per asfissia in pochi minuti. Gli animali utilizzati nei sacrifici – in genere tori o uccelli – crollavano rapidamente, spesso tra le acclamazioni della folla, convinta di assistere a un prodigio divino.

In realtà, si trattava di un effetto perfettamente naturale, ma non per questo meno spettacolare. “I sacerdoti sapevano, almeno empiricamente, quando entrare e uscire dal Plutonio,” spiega Pfanz. “Erano più alti degli animali, spesso salivano su basamenti di pietra per elevare la loro posizione, e conoscevano il momento in cui il gas era più o meno pericoloso.” Di giorno, con l’aumento della temperatura dovuto al Sole, la CO₂ si disperdeva parzialmente, rendendo l’area più sicura per l’uomo.

Ma non tutti gli studiosi sono concordi sull’interpretazione “razionale” dei rituali. L’archeologo Francesco D’Andria, dell’Università del Salento, che ha riscoperto il sito nel 2011, invita alla cautela: “Abbiamo trovato numerose lampade ad olio accese nei pressi del Plutonio, un’indicazione che i sacerdoti vi accedevano anche di notte, proprio quando il gas era più letale.” Per D’Andria, si tratterebbe quindi non solo di conoscenze empiriche, ma forse anche di pratiche rituali pensate per esasperare il pericolo e aumentare l’aura di mistero e potere che circondava il culto.

In ogni caso, il fenomeno naturale alla base del mito resta un esempio affascinante di come religione, scienza e spettacolo potessero fondersi nell’antichità. Il Plutonio non era un semplice luogo di culto: era un teatro della morte, costruito su una ferita della Terra e orchestrato da uomini che, consapevolmente o meno, giocavano con le forze della natura.

Oggi l’area è visitabile, anche se le autorità archeologiche vietano l’accesso diretto alla grotta proprio per il rischio legato all’accumulo di CO₂. L’impressione che si ricava, camminando tra le pietre antiche di Hierapolis, è quella di una civiltà che sapeva sfruttare le leggi fisiche per avvalorare i suoi miti, costruendo un sofisticato equilibrio tra paura e fede, tra mistero e dominio.

Il mito della “Porta dell’Inferno”, dunque, sopravvive non come una favola scacciata dalla ragione, ma come un esempio straordinario del potere che le conoscenze ambientali – anche rudimentali – avevano nell’antichità. E forse anche oggi, di fronte ai grandi misteri della natura, dovremmo imparare a guardare con la stessa meraviglia e rispetto.



giovedì 6 ottobre 2022

"Dammi una spada e ucciderò il tiranno": il giovane Catone e l’audacia che sfidò Silla

Nell'anno 82 avanti Cristo, la Repubblica Romana si trovava in ginocchio. Non per mano di un esercito straniero o di un nemico interno armato di ideali sovversivi, ma sotto il controllo ferreo di uno dei suoi stessi figli: Lucio Cornelio Silla, dittatore a tempo indeterminato, signore della guerra civile e architetto di un regime fondato sulla repressione e sull'eliminazione sistematica degli oppositori. In un clima di terrore, dove le proscrizioni portavano ogni giorno alla morte decine di cittadini illustri, nessuno osava opporsi apertamente. Nessuno, eccetto un ragazzo di appena quattordici anni.

Marco Porcio Catone, discendente della stirpe austera di Catone il Censore, già in età adolescenziale incarnava lo spirito più puro e intransigente del mos maiorum — quel codice di valori antichi che aveva forgiato la grandezza di Roma: disciplina, austerità, coraggio, senso della giustizia. In un’epoca in cui la Repubblica si piegava sotto il peso di un potere assoluto e arbitrario, Catone emergeva come una voce solitaria e incorruttibile, un profeta precoce della resistenza repubblicana.

La testimonianza di questo spirito indomito ci giunge attraverso le parole del biografo greco Plutarco, che racconta un episodio emblematico quanto inquietante. All’epoca, Catone viveva con lo zio Marco Livio Druso, e frequentava la casa dello stesso Silla, dove erano accolte le più importanti famiglie aristocratiche. Fu lì, osservando da vicino gli effetti devastanti del potere assoluto, che il giovane Catone cominciò a nutrire un odio profondo verso l’uomo che aveva trasformato Roma in un’arena di sangue.

Quando seppe delle continue esecuzioni ordinate dal dittatore, chiese con tono gelido al suo maestro: “Perché nessuno ha ancora ucciso Silla?”. Il precettore, sorpreso, rispose che la paura ispirata da Silla era più forte dell’odio. Fu allora che Catone, senza esitazione, replicò: “Allora dammi una spada! Lo ucciderò io. Libererò la patria dall’oppressore!”. Parole che, per quanto pronunciate da un adolescente, gelarono il sangue del maestro. Lo sguardo di Catone non era acceso da una passione passeggera, ma da una determinazione fredda, lucida, pericolosa. Da quel giorno, il ragazzo fu sorvegliato costantemente, per timore che passasse dalle parole ai fatti.

Questo aneddoto, per quanto simbolico, non è un semplice racconto di gioventù impetuosa. È il primo atto pubblico del personaggio che, crescendo, avrebbe rappresentato l’ultima speranza della Repubblica contro l'avanzata dell'autoritarismo. Catone il Giovane, come sarà ricordato nei decenni successivi, non fu mai un rivoluzionario nel senso moderno del termine, ma piuttosto un conservatore radicale, pronto a morire pur di difendere il sistema istituzionale tramandato dagli antenati.

Fu senatore, pretore, e figura di riferimento per la fazione degli optimates. Fu il nemico giurato di Giulio Cesare, il quale rappresentava ai suoi occhi la reincarnazione dello stesso pericolo che aveva visto in Silla: un potere personale che si erge al di sopra delle leggi. Quando Cesare attraversò il Rubicone, Catone tentò di opporsi con ogni mezzo politico e morale. E quando Roma fu definitivamente perduta nelle mani del nuovo padrone, preferì togliersi la vita a Utica, piuttosto che piegarsi all’umiliazione di vivere sotto una dittatura.

Ma tutto iniziò in quella stanza, con quella frase sussurrata tra rabbia e purezza: “Dammi una spada”. Una frase che riecheggia nella storia come un monito contro l’assuefazione al potere tirannico. Catone non fu un eroe perfetto, e le sue scelte intransigenti contribuirono forse alla fine di ciò che cercava di salvare. Eppure, fu l’unico a non piegarsi mai, a credere fino all’estremo sacrificio che la Repubblica valesse più della vita.

Nel mondo moderno, dove spesso il compromesso è la moneta corrente della politica, la figura di Catone ci ricorda che vi sono momenti in cui il silenzio è complicità, e che anche la voce di un ragazzo può scuotere un impero.



mercoledì 5 ottobre 2022

Contraffazione e svalutazione nell'antica Roma: quando l’Impero falsificava se stesso

Nel mondo moderno, la contraffazione della moneta è un crimine perseguito con rigore. Ma nell’antica Roma, la linea tra frode e politica monetaria era molto più sfumata — e, sorprendentemente, i principali artefici della manipolazione del denaro erano spesso gli stessi imperatori. Più che un’eccezione, la contraffazione — o, per usare un termine più preciso, la svalutazione sistematica della moneta — era una prassi largamente diffusa e istituzionalizzata, talvolta deliberatamente promossa dallo Stato per ragioni economiche o belliche.

Le monete romane erano, a differenza del denaro fiat odierno, veri e propri oggetti di valore intrinseco. Un aureo d’oro, un denario d’argento o un asse di rame non erano semplici simboli di ricchezza, ma contenevano quella ricchezza, nel peso e nella purezza del metallo prezioso da cui erano composti. Per questo motivo, il valore delle monete non era determinato solo dalla loro emissione ufficiale, ma anche dal contenuto effettivo di oro o argento che le caratterizzava.

In un’economia fondata sul valore materiale del denaro, la tentazione di manipolare la composizione metallica delle monete era forte — e non solo per falsari privati. Durante i periodi di crisi, furono gli stessi imperatori a ridurre progressivamente la quantità di metallo nobile nelle monete, con effetti devastanti sulla fiducia e sull’equilibrio dei prezzi.

Il caso più emblematico di questa pratica è il destino dell’Antoniniano, introdotto da Caracalla nel 215 d.C. Come moneta d’argento dal valore teorico doppio rispetto al denario, l’Antoniniano nacque già con un problema strutturale: conteneva meno di 1,5 volte l’argento del denario. Fu, in sostanza, una truffa legalizzata.

Con la crisi del III secolo, la situazione peggiorò rapidamente. Gli imperatori che si succedettero — Macrino, Eliogabalo, Alessandro Severo e molti altri — continuarono a ridurre la percentuale di argento nell’Antoniniano, fino a trasformarlo in una moneta dal valore quasi simbolico. Verso il 270 d.C., sotto l’imperatore Aureliano, il contenuto d’argento era sceso al 5%, rendendo la moneta sostanzialmente priva di valore. L’iperinflazione esplose. I prezzi dei beni aumentarono vertiginosamente e la gente, sfiduciata, cominciò a rifiutare le monete ufficiali, preferendo il baratto o metodi alternativi di scambio.

La contraffazione vera e propria, condotta da privati, era naturalmente punita severamente. Le tecniche più comuni prevedevano l’uso di metalli meno preziosi come il rame, ricoperti da sottili strati di argento. I falsari riproducevano i conii ufficiali per dare legittimità visiva alle monete adulterate, ma col tempo l’usura faceva emergere la natura fraudolenta del pezzo: la patina d’argento si consumava e il rame sottostante veniva esposto.

Ma il contrasto tra queste attività clandestine e le azioni dello Stato è sottile. I falsari rischiavano la pena capitale per imitare monete che, nel frattempo, gli imperatori svalutavano sistematicamente per finanziare guerre, pagare i soldati o sostenere l’apparato statale. La vera differenza non stava nel metodo, ma nella legittimità politica di chi effettuava la contraffazione.

Nell’antica Roma, il denaro non era solo uno strumento di scambio, ma anche un bene d’uso. Le monete potevano essere fuse per ottenere gioielli, cucite sugli abiti per mostrare ricchezza, o persino tagliate per pagare frazioni del loro valore. In mancanza di pezzi di piccolo taglio, era prassi comune dividere una moneta più grande per ottenere il giusto ammontare — un comportamento impensabile oggi, ma perfettamente logico in un sistema monetario basato sul peso del metallo.

Per questo motivo, il valore di una moneta dipendeva tanto dalla zecca di provenienza quanto dallo stato di conservazione. Monete più antiche, ma più pure, valevano più di quelle nuove coniate con leghe depotenziate. Ecco perché nei grandi pagamenti, il denaro non era solo contato, ma pesato: ciò che contava era il contenuto di metallo, non il numero impresso sul conio. Da qui l’iconografia ricorrente del banchiere medievale con la bilancia, simbolo di un’economia ancora legata a criteri materiali.

Nel 284 d.C., l’ascesa di Diocleziano segnò un tentativo deciso di riformare il sistema monetario. L’imperatore aumentò il contenuto d’argento dell’Antoniniano e introdusse una nuova moneta aurea, il Solidus, che per secoli divenne il pilastro dell’economia romana e bizantina. Il Solidus conteneva circa 4,5 grammi d’oro puro, ed era sufficientemente stabile da sopravvivere alla caduta dell’Impero d’Occidente, rimanendo in uso fino all’epoca carolingia.

Tuttavia, la lezione della crisi precedente non fu appresa pienamente. Nei secoli successivi, anche l’Impero d’Oriente riprese la pratica della svalutazione, fino a che nel 1092, l’imperatore Alessio I Comneno fu costretto a sostituire il Solidus con una nuova moneta, l’iperpiron, per tentare di arginare il degrado monetario.

La storia monetaria dell’antica Roma mostra che la fiducia nel denaro è un bene fragile. Quando la moneta perde valore perché viene adulterata — sia da falsari, sia da governi in cerca di risorse — la società ne paga il prezzo in termini di inflazione, instabilità e perdita di coesione. Se oggi la carta moneta ha valore solo perché lo Stato lo garantisce, è anche vero che proprio lo Stato — come nell’antichità — può trasformarsi nel primo e più efficiente dei contraffattori. Una riflessione che, dalla Roma imperiale ai tempi moderni, non ha mai perso attualità.



martedì 4 ottobre 2022

Il segreto tonificante dei gladiatori romani? Una bevanda a base di cenere

Per secoli, l’immaginario collettivo ha rappresentato i gladiatori come guerrieri possenti e carichi di carne e vino, impegnati in duelli epici nell’arena davanti a folle urlanti. Eppure, la scienza moderna ci restituisce un ritratto ben diverso: quello di atleti altamente specializzati, la cui alimentazione era sorprendentemente più vicina a quella di un moderno vegetariano che a quella di un carnivoro da banchetto. E il loro tonico? Nient’altro che una bevanda a base di ceneri vegetali.

Uno studio congiunto del Dipartimento di Medicina Forense dell’Università di Vienna e dell’Università di Berna, pubblicato a seguito di un’analisi condotta su resti umani rinvenuti nell’antica Efeso (oggi in Turchia), ha fatto luce sulla dieta dei gladiatori del II-III secolo d.C. I risultati si basano sull’esame di 53 scheletri provenienti da un cimitero nei pressi dell’anfiteatro cittadino, di cui 22 attribuiti con certezza a gladiatori professionisti.

I testi dell’antichità definivano spesso i gladiatori hordearii, ovvero “mangiatori d’orzo”. Un termine che, più che un titolo nobile, aveva un’accezione quasi spregiativa, indicando la bassa qualità degli alimenti a loro destinati. Tuttavia, i dati scientifici oggi sembrano confermare la fondatezza di quell’epiteto.

Attraverso la spettroscopia isotopica, gli studiosi hanno analizzato il contenuto di carbonio, azoto e zolfo nel collagene osseo, nonché le concentrazioni di calcio e stronzio nella componente minerale delle ossa. I risultati hanno evidenziato una dieta fortemente incentrata su legumi, cereali e vegetali. Nessuna traccia significativa di consumo abituale di carne o prodotti animali. Si trattava, insomma, di una dieta prevalentemente vegetariana, ricca di fibre, carboidrati complessi e sali minerali.

Questa dieta non era frutto del caso, ma piuttosto il risultato di una scelta funzionale alla vita in arena: una fonte energetica a rilascio lento, utile a sostenere gli sforzi intensi dei combattimenti, senza i rischi legati a un’alimentazione ricca di grassi animali.

Ma l’aspetto più sorprendente dell’indagine riguarda la sorprendente concentrazione di stronzio nelle ossa dei gladiatori, nettamente superiore rispetto a quella riscontrata nella popolazione comune dell’epoca.

Lo stronzio è un elemento che si comporta in modo simile al calcio nel corpo umano e si accumula nel tessuto osseo. La sua presenza in livelli così elevati suggerisce che i gladiatori assumessero sistematicamente fonti minerali non comuni. L’ipotesi degli studiosi è che queste provenissero da una bevanda ricavata dalle ceneri di piante, un rimedio citato anche in fonti storiche, ma finora mai confermato scientificamente.

Fabian Kanz, antropologo forense e co-autore dello studio, ha commentato: “Le ceneri di piante venivano chiaramente consumate per fortificare il corpo dopo gli sforzi fisici e per favorire una migliore guarigione delle ossa”. Questo uso della cenere, oggi può sembrarci inusuale, ma ha profonde radici nella medicina antica, che riconosceva alle ceneri vegetali proprietà remineralizzanti e disintossicanti.

L’analogia più vicina ai nostri giorni è quella degli integratori di magnesio e calcio, spesso usati dagli sportivi per combattere l’affaticamento muscolare e sostenere la rigenerazione ossea. La bevanda dei gladiatori, pur rudimentale, rispondeva agli stessi principi fisiologici.

Pur non esistendo una ricetta “ufficiale” sopravvissuta nei testi, gli studiosi ipotizzano una preparazione molto semplice. La cenere veniva ottenuta bruciando piante ricche di sali minerali, come fieno, legumi secchi o alcune cortecce. Questa veniva poi sciolta in acqua o vino annacquato e bevuta come tonico.

Ecco una ricostruzione storica plausibile:

Ingredienti:

  • 1 cucchiaio di cenere vegetale setacciata (ottenuta da fieno, legumi o cortecce non trattate)

  • 250 ml di acqua

  • (facoltativo) 1 cucchiaio di vino rosso diluito

  • (facoltativo) miele o fichi secchi per aromatizzare

Preparazione:

  1. Setacciare la cenere in un panno pulito per eliminare i residui più grossolani.

  2. Scaldare l’acqua senza portarla a ebollizione.

  3. Aggiungere la cenere e lasciare in infusione per circa 10 minuti.

  4. Filtrare nuovamente con cura e, se gradito, aggiungere vino o miele.

  5. Bere fredda o a temperatura ambiente.

Va sottolineato che questa è una ricostruzione storica e non è raccomandato consumare ceneri vegetali senza rigorosi controlli, poiché potrebbero contenere sostanze tossiche. L’interesse di questa preparazione è principalmente storico e culturale.

Questa scoperta rivoluziona l’immagine stereotipata del gladiatore come bruto assetato di sangue. Al contrario, emerge il profilo di un atleta controllato, attento all’alimentazione, monitorato nella dieta e sottoposto a un regime fisico e nutrizionale rigoroso, non dissimile da quello degli sportivi contemporanei.

I combattimenti non erano solo spettacolo, ma anche esibizioni tecniche e coreografate, in cui la resistenza fisica era cruciale. Una dieta troppo ricca o sbilanciata avrebbe potuto compromettere le prestazioni e la lucidità sul campo.

La bevanda a base di cenere era, dunque, parte integrante di un sistema di cura del corpo, uno strumento preventivo e terapeutico volto a favorire il recupero osseo e muscolare.

La scoperta della “bevanda di cenere” getta nuova luce sulla sofisticazione della medicina sportiva nell’antichità. Lungi dall’essere superstiziosi o improvvisati, i romani avevano compreso, in modo empirico ma efficace, l’importanza dell’equilibrio minerale per la salute ossea e la performance fisica.

In un certo senso, i gladiatori ci insegnano ancora qualcosa: che la vera forza nasce dall’equilibrio, dalla preparazione, e da una conoscenza del corpo che supera i secoli.