mercoledì 12 ottobre 2022

2500 a.C.: il primo medico che osò dire “non c’è cura”



In un’epoca remota in cui l’umanità guardava alle stelle per comprendere il proprio destino e invocava gli dèi per curare i mali del corpo, un anonimo medico egizio osò scrivere parole che ancora oggi colpiscono per la loro spiazzante onestà: “Non esiste una cura.”
Lo fece nero su bianco, intorno al 2500 a.C., redigendo uno dei testi medici più antichi e straordinari della storia: il Papiro Edwin Smith.

Non si trattava di un testo religioso, né di un manuale di incantesimi. Al contrario, questo trattato – sopravvissuto fino a noi grazie a una copia del XVI secolo a.C. – si distingue per il suo tono clinico, sistematico e per certi versi sorprendentemente moderno. Scritto in ieratico, una forma corsiva della scrittura geroglifica, il papiro analizza 48 casi medici, perlopiù legati a ferite, fratture e traumi del corpo umano. Ma tra essi, al caso numero 45, si cela un passaggio tanto essenziale quanto epocale: la prima descrizione documentata di un tumore al seno.

Nel caso 45, l’autore si concentra su quella che oggi definiremmo una lesione neoplastica mammaria. Scrive di “tumori al petto”, descrivendoli come “grandi, diffusi e duri”, assimilabili al tatto a “una palla di stracci” o al frutto ancora acerbo dell’emat, probabilmente una varietà di fico o dattero. Il confronto con un oggetto solido e freddo mostra un livello di osservazione non comune per l’epoca. Non si invocano spiriti maligni né si fa riferimento a possessioni divine: la malattia è osservata, analizzata e registrata in termini fisici, empirici, sensoriali.

Ancora più sorprendente è la struttura metodica che l’autore applica a ogni caso: diagnosi, prognosi e raccomandazioni terapeutiche. Una prassi che anticipa di millenni l’approccio clinico occidentale. In molti casi, l’autore propone medicazioni, impacchi, manipolazioni o interventi. Ma per il tumore al seno, l’ammissione è netta, spoglia di eufemismi: “non c’è cura”.

In un contesto culturale dove magia, medicina e religione erano intrecciate a doppio filo, la rinuncia a prescrivere incantesimi o trattamenti miracolosi è rivoluzionaria. Questo medico, che probabilmente operava sotto l’egida di un tempio o in un contesto palaziale, non cerca di mascherare la sua impotenza con riti o placebo. Anzi, la riconosce, la nomina e la registra per la posterità.

Questa dichiarazione di limite umano di fronte alla malattia – e alla morte – è un gesto di straordinaria integrità intellettuale. Implica, implicitamente, che non tutto è spiegabile o dominabile, che la scienza, pur giovane, ha confini precisi. Ed è proprio in questa consapevolezza che risiede la modernità di questo frammento: nel rifiuto dell’onnipotenza, nella lucida accettazione dell’ignoto.

Il documento, oggi custodito presso la Biblioteca della New York Academy of Medicine, porta il nome di Edwin Smith, l’antiquario americano che lo acquistò nel 1862 in Egitto. Ma fu James Henry Breasted, celebre egittologo e fondatore dell’Oriental Institute di Chicago, a tradurlo e pubblicarlo per la prima volta nel 1930.

Gli studiosi ritengono che il papiro sia la copia di un manoscritto ancora più antico, risalente appunto alla V Dinastia (intorno al 2500 a.C.), scritto da un medico probabilmente attivo a Menfi, la capitale dell’Antico Regno. Alcuni attribuiscono l’opera al leggendario Imhotep, architetto e visir del faraone Djoser, divinizzato secoli dopo proprio come dio della medicina.

Quell’antico caso clinico ci ricorda che il cancro non è una malattia moderna, come spesso erroneamente si pensa. Ha accompagnato l’umanità fin dai suoi albori, e da oltre 4.000 anni la medicina cerca di comprenderlo, arginarlo e, dove possibile, curarlo.
Oggi, grazie alla ricerca scientifica e alla diagnosi precoce, molti tumori al seno sono curabili, con percentuali di sopravvivenza sempre più elevate. Eppure, il silenzioso rispetto contenuto in quella frase millenaria – “non esiste una cura” – resta un monito sull’umiltà necessaria nella pratica medica.

Il medico egizio che la scrisse non sapeva che, millenni dopo, le sue parole avrebbero resistito al tempo. Ma ci ha lasciato un’eredità potente: un esempio di rigore, osservazione e onestà che ancora oggi possiamo riconoscere come scienza.


martedì 11 ottobre 2022

Nell’antica Roma, il fallo era sacro: quando l’erotismo era religione e protezione

Nel nostro mondo moderno, l’immagine di un fallo disegnato su un muro è considerata un atto vandalico, una burla adolescenziale da rimuovere il prima possibile. Ma nell’antica Roma — una civiltà ossessionata dal potere, dalla protezione e dalla fertilità — la stessa immagine assumeva un valore radicalmente diverso. Non solo non era considerata oscena, ma era oggetto di culto, simbolo apotropaico e strumento di difesa mistico-religiosa.

In un sorprendente ribaltamento del nostro attuale sistema di valori, i Romani vedevano nella raffigurazione del fallo una forza positiva, un talismano contro le forze maligne. Il fascinum — come veniva chiamato l'amuleto fallico — era onnipresente: lo si trovava sulle porte delle abitazioni, sulle lucerne a olio, appeso ai colli dei bambini, o incastonato nei mosaici e nelle sculture. Alcuni esemplari, come quelli rinvenuti a Pompei, sono vere opere d’arte: campanelli eolici in bronzo a forma di falli alati, amuleti multipli montati su strutture decorate, figure di Mercurio in forma fallica con campanelle attaccate alle estremità.

Il culto del fallo era strettamente connesso al dio Fascinus, una divinità minore ma potente, incaricata di proteggere i Romani dalla fascinatio, ovvero l’influenza maligna e invidiosa, un’idea non distante dal concetto di “malocchio”. Le stesse Vestali, le custodi della sacra fiamma di Roma, erano incaricate della venerazione del fascinum populi Romani — il fallo sacro del popolo romano, conservato nel tempio di Vesta.

Lo scrittore cristiano Agostino, pur condannando con severità questi riti, ne fornisce un resoconto prezioso nel suo De Civitate Dei: durante i riti di Liber Pater — divinità dell'ebbrezza e della fecondità, assimilata a Dioniso — un fallo gigantesco veniva posto su un carro e portato in processione attraverso i campi e poi in città, in un rituale mistico finalizzato a garantire fertilità e protezione contro l’invidia distruttiva.

L’uso del fallo come oggetto protettivo non si limitava ai riti religiosi. Secondo Plinio il Vecchio, un’immagine fallica veniva appesa sotto il carro trionfale dei generali vittoriosi per proteggerli dall’odio e dall’invidia del popolo. Nei graffiti pompeiani, invece, il fallo era impiegato con leggerezza e ironia, come nel celebre esempio: “Hospes, feliciter! Hic ego cum ancilla puella bene futui” (“Ospite, benvenuto! Qui io ho fatto del buon sesso con la servetta”). Un gesto che, a dispetto del nostro sguardo moderno, non era offensivo, bensì familiare, quasi augurale.

Ma la personificazione più estrema di questa ossessione fallica era Priapo, un dio rurale di origini greche, successivamente adottato dai Romani. Figlio di Afrodite e Dioniso, Priapo incarnava la virilità e la potenza generativa della natura. Maledetto per la sua sfacciata lussuria e il suo aspetto grottesco, veniva raffigurato come un nano dal pene costantemente eretto, spesso colorato di rosso, e usato come spaventapasseri nei campi. Le sue statue, posizionate nei giardini, erano temute tanto quanto venerate: chi osava rubare i frutti del giardino rischiava, secondo la leggenda, un’aggressione sessuale da parte del dio stesso.

Ovidio, nei suoi Fasti, descrive con tono ironico e provocatorio il tentativo di Priapo di violentare una ninfa, sventato da un asino che ragliando sveglia tutti. Più tardi, nella raccolta Priapea, il dio diventa protagonista di una letteratura popolare satirica, in cui minaccia chiunque si avvicini alle sue proprietà con ogni genere di vendetta sessuale.

Queste pratiche, per quanto sconcertanti per il nostro sguardo contemporaneo, non erano marginali. Esse permeavano la vita quotidiana, religiosa e politica della Roma antica. Non solo il fallo era onnipresente, ma possedeva uno statuto culturale e simbolico ben preciso: era il sigillo della fertilità, lo scudo contro le forze oscure, e un marchio di potere, sociale e divino.

Oggi, l’unico luogo al mondo in cui sopravvive un analogo sistema simbolico è il Bhutan, dove i falli dipinti adornano le case per proteggere gli abitanti dagli spiriti maligni e dai pettegolezzi. Una continuità che, seppur geograficamente distante, offre un raro specchio di quella Roma arcaica che non temeva l’anatomia, ma anzi, la venerava.

In un’epoca in cui il corpo è spesso censurato e la sessualità relegata alla sfera privata, il mondo romano ci ricorda che ciò che oggi consideriamo osceno può, in altri contesti, rappresentare il sacro. E forse ci invita a chiederci quanto della nostra visione sia davvero universale — o solo il riflesso dei nostri tabù.



lunedì 10 ottobre 2022

COM’ERA UN APPARTAMENTO NELL’ANTICA ROMA? UNA VITA TRA SOPPALCHI, BRACIERI E PANE NEL VINO


Roma, 14 d.C. — Se vi immaginate un appartamento romano come un moderno bilocale con cucina, bagno e soggiorno, vi conviene rivedere le aspettative. Nell’antica Roma, la maggior parte dei cittadini non viveva rinchiusa tra quattro mura, ma immersa nella città stessa, che fungeva da estensione del proprio spazio vitale. Le abitazioni private erano essenzialmente luoghi dove dormire. Per tutto il resto — mangiare, lavarsi, socializzare, perfino lavorare — c’era l’urbe.

Il cuore dell’edilizia abitativa romana per la gente comune era l’insula, una sorta di palazzina multipiano in muratura, a volte anche in legno o materiali meno resistenti, spesso soggetta a incendi e crolli. Le insulae si sviluppavano in altezza — in certi casi fino a sei piani — per rispondere al problema del sovraffollamento urbano. Al piano terra vi erano i negozi (le tabernae), con i retrobottega e soppalchi destinati a dormitori. I piani più alti ospitavano alloggi via via più piccoli, meno salubri e meno costosi.

Le famiglie modeste, artigiani, schiavi e liberti con pochi mezzi abitavano ambienti minuscoli, composti spesso da una sola stanza. Mobili? Ridotti all’essenziale: uno o due bauli per riporre vestiti e oggetti di valore, qualche sgabello, forse un letto. In molti casi si dormiva direttamente su stuoie o materassi poggiati a terra. Il riscaldamento era affidato a un braciere, che fungeva anche da rudimentale cucina, sebbene cucinare in casa fosse raro: mancavano veri spazi per farlo, e il rischio di incendio era sempre dietro l’angolo.

Per i più fortunati, al primo piano dell’insula si poteva trovare qualche appartamento con più stanze. Ma attenzione: anche in questi casi non si trattava mai di abitazioni autosufficienti. Non c’era bagno e non c’era cucina. L'acqua doveva essere presa alle fontane pubbliche; per i bisogni fisiologici si ricorreva alle latrine comuni o a vasi da notte che venivano poi svuotati — spesso in strada o nei canali di scolo. E i servizi igienici erano spesso condivisi da decine, se non centinaia, di persone.

La giornata tipo di un romano iniziava presto. Dopo essersi recato alle latrine pubbliche, consumava una colazione frugale: solitamente pane inzuppato in vino annacquato. Lavorava fino a mezzogiorno, poi si dedicava alla vita sociale e ai bagni pubblici, le celebri terme, uno degli spazi più democratici della città: accessibili a tutti, dagli schiavi ai senatori. Qui ci si lavava, ci si radeva, si prendeva parte a massaggi, esercizi ginnici o semplicemente si conversava.

Il termopolium, un mix tra taverna e fast food, costituiva la principale fonte di alimentazione per la maggioranza dei cittadini. Qui si acquistavano piatti pronti: porridge, pane, verdure cotte, formaggi freschi, uova, talvolta carne o pesce. I cibi si consumavano sul posto o si portavano a casa per riscaldarli sul braciere. Pranzare e cenare in casa erano atti intimi ma secondari. Il centro della convivialità era fuori, nelle strade, nei mercati, nei fori.

Le abitazioni aristocratiche, le celebri domus, offrivano una realtà completamente diversa: cortili interni, stanze affrescate, mosaici, giardini, e un apparato di servi che colmava le mancanze strutturali. Ma erano una rarità, privilegio di una ristretta élite. Per tutti gli altri, l'abitazione era un rifugio, mai un centro di vita.

In sintesi, si può dire che per i Romani la città era casa, e la casa era solo letto. Un’inversione radicale rispetto alla nostra quotidianità moderna. Eppure, da questa sobrietà funzionale emerge un modello urbano denso di relazioni sociali, di luoghi pubblici vissuti, di comunità tangibile. Lontani dai nostri divani, ma forse più vicini gli uni agli altri.



domenica 9 ottobre 2022

La storia di Lucio Cornelio Silla è una delle pagine più complesse e controverse della Roma antica, un racconto che mescola astuzia politica, brutalità e, paradossalmente, un certo tipo di "rinascita" personale. Ma se guardiamo più da vicino, la narrazione che hai presentato potrebbe non rispecchiare del tutto i dettagli storici e l’evoluzione della figura di Silla.

Lucio Cornelio Silla fu un uomo che incarnò, senza dubbio, una delle fasi più turbolente e sanguinose della Repubblica Romana. La sua ascesa al potere non fu una questione di dissolutezza o di disinteresse per le sorti della sua città, ma un gioco di potere implacabile, una spinta da parte di un uomo che sentiva la necessità di ripristinare un ordine che, a suo avviso, era stato minato dalla crescente instabilità politica e dalle rivolte popolari.

Silla non marciò su Roma solo per uccidere i suoi nemici, ma con l’intento ben preciso di ripristinare l'autorità del Senato contro le forze popolari rappresentate dai tribuni e dalle riforme che minavano l'antico equilibrio della Repubblica. Le sue liste di proscrizione furono notoriamente brutali, ma non solo per vendetta personale; si trattava di un atto di purificazione politica che, secondo lui, avrebbe riportato Roma alla sua antica grandezza.

Il suo periodo di dittatura non fu, come scritto, un semplice "ritiro in campagna" all'insegna del piacere. Dopo aver consolidato il potere, Silla iniziò un lungo processo di riforme che toccò profondamente la costituzione politica di Roma, cercando di restaurare il Senato come corpo centrale del governo, mettendo fine all'era delle riforme popolari portate avanti dai Gracchi e dai tribuni. La sua repubblica restaurata fu un passo indietro verso una consolidata oligarchia senatoria, che eliminava qualsiasi altra forma di potere popolare, inclusi i tribuni della plebe.

Quando Silla si ritirò dalla dittatura, lo fece non per cercare una vita di eccessi o svaghi, ma come una sorta di dichiarazione di controllo assoluto su un sistema che aveva plasmato a sua immagine e somiglianza. Silla non si nascose in campagna per dimenticare la sua vita politica, ma decise di lasciare il potere, forte della sua vittoria. Il suo ritiro fu un atto che pochi altri avrebbero osato compiere in un periodo storico come quello, dove i dittatori solitamente morivano o erano costretti a tenere il potere fino alla fine.

La sua morte avvenne nel 78 a.C., due anni dopo il suo ritiro, non tra feste e orgie, ma segnò la fine di un uomo che, a dispetto della sua brutalità, aveva lasciato un segno indelebile sulla politica di Roma.

Se Silla ha voluto ritirarsi in un angolo di Roma, lontano dai riflettori, è probabile che la sua morte avvenne in un momento in cui la serenità personale non era più possibile da raggiungere. La violenza della sua carriera e il peso delle sue decisioni lo accompagnarono fino alla fine.

La leggenda che lo vuole vivere una vita dissoluta dopo il ritiro potrebbe essere più il frutto di una distorsione storica, un’interpretazione della sua figura a posteriori, che cerca di umanizzare l'uomo dietro il dittatore. Tuttavia, è innegabile che Silla rimanga una delle figure più enigmatiche e, in certi aspetti, tragiche della storia romana. La sua vita racconta come, pur nella sua brutalità, si possa giungere a una sorta di "rinascita" politica, ma mai veramente personale, dato il peso delle sue azioni.

Alla fine, Silla ci lascia una lezione, non tanto sul "potere assoluto", ma sulla fragilità umana nel gestirlo. La storia di Silla non è solo quella di un dittatore che marciò su Roma, ma di un uomo che dovette affrontare i suoi fantasmi interni, cercando una forma di equilibrio che, alla fine, non riuscì mai a trovare veramente.


sabato 8 ottobre 2022

I Romani nel Deserto: scoperti tre accampamenti militari grazie a Google Earth

Una scoperta rivoluzionaria nel cuore dell’Arabia settentrionale rivela le tracce di una campagna militare romana finora ignota, sollevando interrogativi sulle reali modalità di annessione del Regno Nabateo. A guidare la rivelazione: le immagini satellitari e la tenacia dell’archeologia contemporanea.

Con un occhio attento rivolto al passato e uno strumento moderno come Google Earth, un team di archeologi dell’Università di Oxford ha identificato tre accampamenti militari romani nel deserto dell’Arabia settentrionale. La scoperta, pubblicata sulla rivista Antiquity, offre uno squarcio inedito su una possibile campagna militare condotta da Roma all’alba del II secolo d.C., gettando nuova luce su un’epoca considerata, finora, relativamente pacifica nella transizione del potere tra il Regno Nabateo e l’Impero.

Gli accampamenti, scoperti nel corso del progetto Endangered Archaeology in the Middle East and North Africa (EAMENA) e poi documentati fotograficamente da Aerial Archaeology in Jordan (APAAME), sono disposti lungo una direttrice rettilinea che collega l’odierna Bayir, in Giordania, alla città di Dûmat al-Jandal, oggi in Arabia Saudita. Una posizione che non pare casuale. Il tracciato si sviluppa lungo una rotta carovaniera secondaria, scelta apparentemente per eludere il ben più trafficato Wadi Sirhan, e conferisce alla manovra un chiaro carattere strategico, forse finalizzato a cogliere di sorpresa un nemico impreparato.

“Questi accampamenti sono straordinari non solo per la loro conservazione ma per ciò che implicano dal punto di vista storico e militare,” ha dichiarato il dottor Michael Fradley, leader del progetto, che per primo ha individuato le strutture servendosi delle immagini satellitari. “La loro tipica forma a ‘carta da gioco’ — rettangolare, con ingressi opposti su ciascun lato — è un marchio inconfondibile dell’esercito romano.”

Il contesto storico in cui si colloca questa scoperta è particolarmente significativo. Dopo la morte del re nabateo Rabbel II Soter nel 106 d.C., la storiografia romana ha tramandato l’annessione del regno come un evento indolore e diplomaticamente risolto. Ma la presenza di questi accampamenti temporanei, distanziati tra loro tra i 37 e i 44 chilometri, suggerisce tutt’altro: una campagna militare strutturata e tutt’altro che incruenta. “La distanza tra i campi è troppo grande per la fanteria — osserva Fradley —, il che implica l’impiego di unità montate, forse cavalleria o cammellieri, capaci di spostarsi rapidamente nel deserto.”

Un dettaglio non secondario è la notevole differenza dimensionale tra il campo più occidentale e gli altri due: il primo appare significativamente più grande. Per il professor Andrew Wilson, coautore dello studio, questa asimmetria apre scenari ancora inesplorati: “Le forze potrebbero essersi divise? Una metà ha proseguito e l’altra è rimasta come supporto logistico? Oppure l’armata si è riorganizzata per affrontare uno scontro non documentato?” Il campo più grande potrebbe aver funzionato da hub per l’approvvigionamento idrico, cruciale in un ambiente tanto ostile quanto quello desertico.

Il dottor Mike Bishop, studioso delle tattiche militari romane, ha accolto la scoperta con entusiasmo: “I forti ci dicono come Roma ha amministrato i suoi territori. Gli accampamenti temporanei, invece, rivelano come li ha conquistati. Questa scoperta ci costringe a ripensare alla rapidità e alla forza con cui l’Impero si è mosso per assicurarsi un regno strategicamente vitale.”

Ma, come spesso accade nella scienza archeologica, ogni risposta genera nuove domande. La datazione esatta degli accampamenti resta da confermare con indagini sul campo, così come il numero complessivo delle strutture. La regolarità della loro disposizione e le distanze suggeriscono che altri campi potrebbero attendere sotto la sabbia, forse nella zona di Bayir, dove sorge anche una stazione di pozzi di epoca omayyade — un indizio della continuità d’uso della via carovaniera nel tempo.

Al centro della vicenda c’è un paradosso storiografico: Roma ha sempre narrato l’annessione del Regno Nabateo come un affare pacifico. Eppure questi accampamenti, silenziosi e ordinati nella vastità del deserto, sembrano raccontare un’altra storia. Una storia di movimento rapido, di strategie nascoste e, forse, di guerra.

Se confermata, la scoperta costituirebbe una delle più importanti revisioni della storia imperiale romana nel Vicino Oriente degli ultimi decenni. E ancora una volta, a scrivere le nuove pagine della storia non è solo la terra, ma anche il cielo — o meglio, la sua immagine riflessa in pixel da un satellite orbitante. Una moderna via Appia dell’indagine archeologica, dove il mouse e la lente sostituiscono piccone e pennello.

Che altri campi giacciano ancora sepolti sotto la sabbia, o che la storia della campagna romana in Arabia sia stata più cruenta di quanto Roma abbia voluto ricordare, rimane ancora oggetto di indagine. Ma una cosa è certa: il deserto, apparentemente vuoto, ha cominciato a parlare. E la sua voce, amplificata dai satelliti, risuona forte fino ai nostri giorni.



venerdì 7 ottobre 2022

La “Porta dell’Inferno” non era magia, ma scienza: svelato il segreto letale del Plutonio di Hierapolis

 

In un angolo polveroso dell’antica Anatolia, lì dove sorgevano le rovine maestose della città greco-romana di Hierapolis, la leggenda di un portale per gli inferi ha sfidato per secoli la comprensione umana. Un luogo tanto temuto quanto venerato, descritto dagli storici antichi come dimora di poteri oscuri, in grado di uccidere ogni essere vivente che osasse avvicinarsi. Ma oggi, grazie alla scienza, il velo di mistero che avvolgeva la cosiddetta “Porta dell’Inferno” è stato finalmente sollevato.

Il “Plutonio” – così era conosciuto il santuario dedicato al dio romano degli inferi, Plutone – altro non era che una grotta incastonata alla base delle gradinate di un teatro antico, da cui esalavano fumi mefitici capaci di soffocare qualsiasi animale offerto in sacrificio. Eppure, i sacerdoti del culto, gli eunuchi di Plutone, sembravano in grado di attraversare il luogo indemni, come se protetti da una forza divina. O almeno così raccontavano i cronisti dell’epoca, come lo storico greco Strabone, che testimoniava la morte istantanea di tori al contatto con quei vapori infernali, mentre i ministri del culto ne uscivano illesi.

Oggi, la spiegazione arriva da un gruppo internazionale di scienziati guidati dal vulcanologo tedesco Hardy Pfanz, dell’Università di Duisburg-Essen, che ha analizzato le emissioni del sito con strumenti di misurazione moderni. I risultati parlano chiaro: la grotta sorge sopra una fessura geotermica attiva, da cui fuoriesce anidride carbonica (CO₂) di origine vulcanica in concentrazioni letali. E il comportamento di questo gas spiega perfettamente la “magia” dei riti antichi.

La CO₂ è più pesante dell’aria e, in assenza di vento o turbolenze termiche, tende ad accumularsi al suolo come una nebbia invisibile. Le rilevazioni effettuate mostrano che la concentrazione raggiunge il picco letale all’alba: nei primi 40 centimetri dal terreno, la saturazione può superare il 35% dell’aria, sufficiente a provocare la morte per asfissia in pochi minuti. Gli animali utilizzati nei sacrifici – in genere tori o uccelli – crollavano rapidamente, spesso tra le acclamazioni della folla, convinta di assistere a un prodigio divino.

In realtà, si trattava di un effetto perfettamente naturale, ma non per questo meno spettacolare. “I sacerdoti sapevano, almeno empiricamente, quando entrare e uscire dal Plutonio,” spiega Pfanz. “Erano più alti degli animali, spesso salivano su basamenti di pietra per elevare la loro posizione, e conoscevano il momento in cui il gas era più o meno pericoloso.” Di giorno, con l’aumento della temperatura dovuto al Sole, la CO₂ si disperdeva parzialmente, rendendo l’area più sicura per l’uomo.

Ma non tutti gli studiosi sono concordi sull’interpretazione “razionale” dei rituali. L’archeologo Francesco D’Andria, dell’Università del Salento, che ha riscoperto il sito nel 2011, invita alla cautela: “Abbiamo trovato numerose lampade ad olio accese nei pressi del Plutonio, un’indicazione che i sacerdoti vi accedevano anche di notte, proprio quando il gas era più letale.” Per D’Andria, si tratterebbe quindi non solo di conoscenze empiriche, ma forse anche di pratiche rituali pensate per esasperare il pericolo e aumentare l’aura di mistero e potere che circondava il culto.

In ogni caso, il fenomeno naturale alla base del mito resta un esempio affascinante di come religione, scienza e spettacolo potessero fondersi nell’antichità. Il Plutonio non era un semplice luogo di culto: era un teatro della morte, costruito su una ferita della Terra e orchestrato da uomini che, consapevolmente o meno, giocavano con le forze della natura.

Oggi l’area è visitabile, anche se le autorità archeologiche vietano l’accesso diretto alla grotta proprio per il rischio legato all’accumulo di CO₂. L’impressione che si ricava, camminando tra le pietre antiche di Hierapolis, è quella di una civiltà che sapeva sfruttare le leggi fisiche per avvalorare i suoi miti, costruendo un sofisticato equilibrio tra paura e fede, tra mistero e dominio.

Il mito della “Porta dell’Inferno”, dunque, sopravvive non come una favola scacciata dalla ragione, ma come un esempio straordinario del potere che le conoscenze ambientali – anche rudimentali – avevano nell’antichità. E forse anche oggi, di fronte ai grandi misteri della natura, dovremmo imparare a guardare con la stessa meraviglia e rispetto.



giovedì 6 ottobre 2022

"Dammi una spada e ucciderò il tiranno": il giovane Catone e l’audacia che sfidò Silla

Nell'anno 82 avanti Cristo, la Repubblica Romana si trovava in ginocchio. Non per mano di un esercito straniero o di un nemico interno armato di ideali sovversivi, ma sotto il controllo ferreo di uno dei suoi stessi figli: Lucio Cornelio Silla, dittatore a tempo indeterminato, signore della guerra civile e architetto di un regime fondato sulla repressione e sull'eliminazione sistematica degli oppositori. In un clima di terrore, dove le proscrizioni portavano ogni giorno alla morte decine di cittadini illustri, nessuno osava opporsi apertamente. Nessuno, eccetto un ragazzo di appena quattordici anni.

Marco Porcio Catone, discendente della stirpe austera di Catone il Censore, già in età adolescenziale incarnava lo spirito più puro e intransigente del mos maiorum — quel codice di valori antichi che aveva forgiato la grandezza di Roma: disciplina, austerità, coraggio, senso della giustizia. In un’epoca in cui la Repubblica si piegava sotto il peso di un potere assoluto e arbitrario, Catone emergeva come una voce solitaria e incorruttibile, un profeta precoce della resistenza repubblicana.

La testimonianza di questo spirito indomito ci giunge attraverso le parole del biografo greco Plutarco, che racconta un episodio emblematico quanto inquietante. All’epoca, Catone viveva con lo zio Marco Livio Druso, e frequentava la casa dello stesso Silla, dove erano accolte le più importanti famiglie aristocratiche. Fu lì, osservando da vicino gli effetti devastanti del potere assoluto, che il giovane Catone cominciò a nutrire un odio profondo verso l’uomo che aveva trasformato Roma in un’arena di sangue.

Quando seppe delle continue esecuzioni ordinate dal dittatore, chiese con tono gelido al suo maestro: “Perché nessuno ha ancora ucciso Silla?”. Il precettore, sorpreso, rispose che la paura ispirata da Silla era più forte dell’odio. Fu allora che Catone, senza esitazione, replicò: “Allora dammi una spada! Lo ucciderò io. Libererò la patria dall’oppressore!”. Parole che, per quanto pronunciate da un adolescente, gelarono il sangue del maestro. Lo sguardo di Catone non era acceso da una passione passeggera, ma da una determinazione fredda, lucida, pericolosa. Da quel giorno, il ragazzo fu sorvegliato costantemente, per timore che passasse dalle parole ai fatti.

Questo aneddoto, per quanto simbolico, non è un semplice racconto di gioventù impetuosa. È il primo atto pubblico del personaggio che, crescendo, avrebbe rappresentato l’ultima speranza della Repubblica contro l'avanzata dell'autoritarismo. Catone il Giovane, come sarà ricordato nei decenni successivi, non fu mai un rivoluzionario nel senso moderno del termine, ma piuttosto un conservatore radicale, pronto a morire pur di difendere il sistema istituzionale tramandato dagli antenati.

Fu senatore, pretore, e figura di riferimento per la fazione degli optimates. Fu il nemico giurato di Giulio Cesare, il quale rappresentava ai suoi occhi la reincarnazione dello stesso pericolo che aveva visto in Silla: un potere personale che si erge al di sopra delle leggi. Quando Cesare attraversò il Rubicone, Catone tentò di opporsi con ogni mezzo politico e morale. E quando Roma fu definitivamente perduta nelle mani del nuovo padrone, preferì togliersi la vita a Utica, piuttosto che piegarsi all’umiliazione di vivere sotto una dittatura.

Ma tutto iniziò in quella stanza, con quella frase sussurrata tra rabbia e purezza: “Dammi una spada”. Una frase che riecheggia nella storia come un monito contro l’assuefazione al potere tirannico. Catone non fu un eroe perfetto, e le sue scelte intransigenti contribuirono forse alla fine di ciò che cercava di salvare. Eppure, fu l’unico a non piegarsi mai, a credere fino all’estremo sacrificio che la Repubblica valesse più della vita.

Nel mondo moderno, dove spesso il compromesso è la moneta corrente della politica, la figura di Catone ci ricorda che vi sono momenti in cui il silenzio è complicità, e che anche la voce di un ragazzo può scuotere un impero.