In un’epoca remota in cui l’umanità guardava alle stelle per
comprendere il proprio destino e invocava gli dèi per curare i mali
del corpo, un anonimo medico egizio osò scrivere parole che ancora
oggi colpiscono per la loro spiazzante onestà: “Non esiste
una cura.”
Lo fece nero su bianco, intorno al 2500
a.C., redigendo uno dei testi medici più antichi e straordinari
della storia: il Papiro Edwin Smith.
Non si trattava di un testo religioso, né di un manuale di incantesimi. Al contrario, questo trattato – sopravvissuto fino a noi grazie a una copia del XVI secolo a.C. – si distingue per il suo tono clinico, sistematico e per certi versi sorprendentemente moderno. Scritto in ieratico, una forma corsiva della scrittura geroglifica, il papiro analizza 48 casi medici, perlopiù legati a ferite, fratture e traumi del corpo umano. Ma tra essi, al caso numero 45, si cela un passaggio tanto essenziale quanto epocale: la prima descrizione documentata di un tumore al seno.
Nel caso 45, l’autore si concentra su quella che oggi definiremmo una lesione neoplastica mammaria. Scrive di “tumori al petto”, descrivendoli come “grandi, diffusi e duri”, assimilabili al tatto a “una palla di stracci” o al frutto ancora acerbo dell’emat, probabilmente una varietà di fico o dattero. Il confronto con un oggetto solido e freddo mostra un livello di osservazione non comune per l’epoca. Non si invocano spiriti maligni né si fa riferimento a possessioni divine: la malattia è osservata, analizzata e registrata in termini fisici, empirici, sensoriali.
Ancora più sorprendente è la struttura metodica che l’autore applica a ogni caso: diagnosi, prognosi e raccomandazioni terapeutiche. Una prassi che anticipa di millenni l’approccio clinico occidentale. In molti casi, l’autore propone medicazioni, impacchi, manipolazioni o interventi. Ma per il tumore al seno, l’ammissione è netta, spoglia di eufemismi: “non c’è cura”.
In un contesto culturale dove magia, medicina e religione erano intrecciate a doppio filo, la rinuncia a prescrivere incantesimi o trattamenti miracolosi è rivoluzionaria. Questo medico, che probabilmente operava sotto l’egida di un tempio o in un contesto palaziale, non cerca di mascherare la sua impotenza con riti o placebo. Anzi, la riconosce, la nomina e la registra per la posterità.
Questa dichiarazione di limite umano di fronte alla malattia – e alla morte – è un gesto di straordinaria integrità intellettuale. Implica, implicitamente, che non tutto è spiegabile o dominabile, che la scienza, pur giovane, ha confini precisi. Ed è proprio in questa consapevolezza che risiede la modernità di questo frammento: nel rifiuto dell’onnipotenza, nella lucida accettazione dell’ignoto.
Il documento, oggi custodito presso la Biblioteca della New York Academy of Medicine, porta il nome di Edwin Smith, l’antiquario americano che lo acquistò nel 1862 in Egitto. Ma fu James Henry Breasted, celebre egittologo e fondatore dell’Oriental Institute di Chicago, a tradurlo e pubblicarlo per la prima volta nel 1930.
Gli studiosi ritengono che il papiro sia la copia di un manoscritto ancora più antico, risalente appunto alla V Dinastia (intorno al 2500 a.C.), scritto da un medico probabilmente attivo a Menfi, la capitale dell’Antico Regno. Alcuni attribuiscono l’opera al leggendario Imhotep, architetto e visir del faraone Djoser, divinizzato secoli dopo proprio come dio della medicina.
Quell’antico caso clinico ci ricorda che il cancro non è
una malattia moderna, come spesso erroneamente si pensa. Ha
accompagnato l’umanità fin dai suoi albori, e da oltre 4.000 anni
la medicina cerca di comprenderlo, arginarlo e, dove possibile,
curarlo.
Oggi, grazie alla ricerca scientifica e alla diagnosi
precoce, molti tumori al seno sono curabili, con percentuali di
sopravvivenza sempre più elevate. Eppure, il silenzioso
rispetto contenuto in quella frase millenaria – “non
esiste una cura” – resta un monito sull’umiltà necessaria
nella pratica medica.
Il medico egizio che la scrisse non sapeva che, millenni dopo, le sue parole avrebbero resistito al tempo. Ma ci ha lasciato un’eredità potente: un esempio di rigore, osservazione e onestà che ancora oggi possiamo riconoscere come scienza.

