venerdì 7 maggio 2021

I pater familias avevano il potere di vita e di morte su tutta la loro famiglia nell'antica Roma


Medicina romana - Wikipedia

I "pater familias" effettivamente aveva prerogative e poteri sulla sua famiglia (moglie, figli, schiavi etc.) inusitati anche per culture contemporanee (Greci per es.). Il p.f è l'unico soggetto che ha rapporti giuridici con altri gruppi ed è abile economicamente. Il figlio maschio non si emancipa economicamente neanche alla maggiore età, ma solo alla morte del p.f.
Alla nascita di un figlio questo viene deposto ai piedi del p.f, che decide se accettarlo nel gruppo (prendendolo tra le braccia) o rifiutarlo (lasciarlo esposto). Un limite viene posto da una lex regia attribuita a Romolo, che punisce l'esposizione del figlio maschio o della primogenita con un'ammenda pari a metà del patrimonio. Il p.f può arrivare a mettere a morte un figlio maschio per "delitti contro lo stato", una femmina per "impudicizia". L'incapacità d'indipendenza economica del figlio maschio è la causa della frequenza del parricidio e delle leggi severissime su questo reato.

giovedì 6 maggio 2021

Perché Nerone bruciò Roma?


In realtà sembra ormai quasi certo che Nerone non bruciò Roma e che si trattò solo di una calunnia diffusa dai suoi nemici per screditarlo.


Secondo questa diceria Nerone avrebbe bruciato la capitale dell'Impero per ricostruirla secondo i suoi gusti e che una volta appiccato l'incendio, esaltato dallo spettacolo delle fiamme si sarebbe messo a suonare dei versi sulla caduta di Troia dal balcone del suo palazzo.
La realtà è diversa: l'Antica Roma una città fatta di palazzi e templi di marmo, era una città sovraffollata e in cui molti quartieri popolari erano fatti di edifici di legno ammassati l'uno su l'altro e in cui gli incendi erano la norma.
Il grande incendio del 64 DC è probabilmente scoppiato in modo accidentale: un piccolo incendio scoppiato in un quartiere povero vicino al circo massimo, che a causa delle condizioni favorevoli essendo pieno luglio, si è propagato in tutta la città. E durò 9 giorni distruggendo 10 dei suoi 14 quartieri.
Nerone non si trovava nemmeno a Roma, ma nella sua villa di Anzio quando scoppiò l'incendio, tornò a Roma solo in un secondo momento quando venne informato che il fuoco stava distruggendo alcune sue proprietà. Tornato a Roma, Nerone l'incendio era ancora attivo e l'Imperatore cercò addirittura di coordinare i soccorsi e fece alloggiare gli sfollati nei giardini di una sua villa, dove furono allestite delle tende.
I sospetti su Nerone nacquero subito perché gli storici antichi raccontano che durante l'incendio furono visti degli uomini con delle fiaccole dare fuoco ad alcuni edifici dicendo di eseguire gli ordini dell'Imperatore. In realtà c'è chi ipotizza che fosse una tecnica per rallentare le fiamme ancora usata dai moderni vigili del fuoco: accendendo dei piccoli fuochi controllati attorno a un grande incendio gli si sottrae l'ossigeno che lo alimenta.
Ad ogni modo, quello che fece Nerone subito dopo la fine dell'Incendio fu un pretesto per i suoi nemici per accusarlo: l'Imperatore pensò che quella fosse un'occasione utile per ricostruire Roma secondo il proprio volere, in particolare fece costruire vicino a dove ora sorge il Colosseo un grande palazzo chiamato Domus Aurea, spianando i resti degli edifici che si trovavano. Diciamo che Nerone non ha colpa nell'incendio, ma di sicuro se ne approfittò un po'.
Va però detto che il piano di ricostruzione urbanistico di Nerone aveva molte novità positive: stabilì una distanza minima tra gli edifici e impose l'uso di materiali più resistenti al fuoco per la ricostruzione degli edifici come i mattoni d'argilla. Insomma, Nerone investì anche sulla sicurezza per evitare nuovi incendi.


mercoledì 5 maggio 2021

Un dettaglio di Pompei che racconta della grandezza della tecnologia romana


Pleonastico ed esornativo raccontare a noi che conosciamo così bene la storia di Roma quanto fossero sviluppate le conoscenze romane in ambito tecnologico. Nel periodo in cui l'Impero Romano rappresentava il centro della cultura europea, Roma disseminò le sue terre di tracce che sarebbero rimaste fino ai giorni nostri come strade, ponti acquedotti che ancora oggi possiamo ammirare.
Ma chi non conosce bene la storia di Roma, visitando Pompei può rendersi conto di quanto fosse elevato il progresso per quell'epoca.
Basta pensare al fatto che gli archeologi hanno rilevato come il 43% delle case del sito di Pompei erano dotate di bagni interni, e molte avevano addirittura tubature idrauliche che risalivano al primo piano.




martedì 4 maggio 2021

Chi rappresentano i bronzi di Riace?


Molto probabilmente Eteocle e Polinice, facenti parte di un gruppo statuario di ben 5 bronzi. Niente, però, è certo. Facciamo una ricostruzione.


CHI SONO I BRONZI DI RIACE? CHI LI HA SCOLPITI?
Sono due delle principali domande che numerosi studiosi si sono posti fin da quel lontano 16 agosto 1972 in cui le due celebri statue greche del V° secolo a.C., capolavori di rara bellezza, furono rinvenute in Calabria a soli 8 metri di profondità, nello specchio d’acqua antistante la località di Porto Forticchio, a Riace Marina. E se quelle due domande stentano a trovare una risposta certa, mistero e ambiguità persistono ancora intorno a quel celebre recupero; infatti la possibilità che in quell’area ci fossero altri reperti risulta tutt’altro che peregrina alla luce di documenti, testimonianze e anche di certe “anomalie metalliche”, mai verificate fino in fondo, riscontrate nella stessa area dalla nave super attrezzata di un magnate americano autorizzato a ricercare antichi luoghi greci di approdo. Insomma ce n’è abbastanza per un giallo che dura da 47 anni. Ma in questa sede accantoniamo il ”giallo” che coinvolge luoghi, persone e documenti sul recupero, per dedicarci a quello dell’identità e dell’origine di queste due splendide statue, sebbene i due enigmi, come vedremo, non siano affatto disgiunti l’uno dall’altro.

LE NUMEROSE TESI INTERPRETATIVE
I Bronzi di Riace fin dal loro ritrovamento hanno fortemente suscitato l’attenzione degli studiosi spingendoli a interrogarsi sull’identità dei personaggi, sul loro autore e sulla loro datazione. E mentre su quest’ultimo punto vi è quasi unanimità nel ritenere che si tratti di due opere del V° secolo a.C., proprie di quella fase della scultura greca che va sotto il nome di ”stile severo”, caratterizzata da un’arte capace di farsi perfetta imitazione della realtà (mimesis), sugli altri due aspetti si sono susseguite nel tempo non meno di 11 tesi interpretative che hanno via via chiamato in causa atleti o eroi della storia o della mitologia, e grandi nomi della scultura come Fidia, Mirone, Pitagora di Reggio, Alakamenes, Agelada. Non ci soffermeremo su tutte le ipotesi - molte di esse non essendo più in grado di reggere a una serie di osservazioni critiche o al confronto con nuovi dati accertati e incontrovertibili – ma solo su una delle più recenti e affascinanti, quella di Daniele Castrizio, docente di numismatica presso l’Università di Messina, fortemente impegnato nell’attività di divulgatore scientifico, che svolge ricorrendo a strumenti multimediali, teatro compreso. Lo dimostra la sua ‘‘Metaconferenza sui Bronzi di Riace”, un vero e proprio spettacolo composto da parti divulgative scientifiche, recitazione, canto e video, in cui si alternano tre figure – un Professore universitario e Archeologo (Daniele Castrizio), un Maestro Musicantore (Fulvio Cama) e un Grafico (Saverio Autellitano) – in un racconto inedito e coinvolgente, premiato di recente con la Medaglia del Presidente della Repubblica.

Daniele Castrizio

I FATTI CONSIDERATI CERTI
Prima però di esporre la tesi di Castrizio, vediamo di fissare gli aspetti ad oggi considerati certi. Le due statue, denominate “A” e “B”, sono alte rispettivamente 1,98 e 1,97 m, e il loro peso, originariamente di 400 kg, è diminuito a circa 160 kg, in virtù della rimozione della terra di fusione presente al loro interno, materiale le cui analisi, eseguite a Roma e a Glasgow, hanno permesso di dimostrare che i due bronzi sono stati realizzati ad Argos, nel Peloponneso, nello stesso periodo e nella stessa officina; non a caso lo stile delle due opere, coerentemente con il luogo di produzione, non è attico ma rimanda a stilemi dorici, propri del Peloponneso e dell’Occidente greco; va inoltre aggiunto che le numerose e sorprendenti similitudini lasciano propendere per un medesimo artista e per un progetto unitario. Da Argo le opere sono arrivate in Italia presumibilmente a seguito di un saccheggio romano e risultano essere state sottoposte a interventi di restauro dopo una loro lunga fruizione pubblica; il restauro dovette avvenire a Roma tra il periodo augusteo e quello degli imperatori della dinastia Giulio-Claudia, come dimostra l’uso di piombo proveniente dalle miniere ateniesi del monte Laurion, chiuse alla metà del I sec. d.C. Tali interventi riguardarono, nel Bronzo A, l’elmo e lo scudo (di cui persistono solo alcuni elementi ad essi correlati), mentre nel Bronzo B braccio destro e avambraccio sinistro risultano modellati ex novo previo calco delle parti danneggiate, con tecniche simili a quelle applicate a Roma su alcune note statue di epoca classica. Un restauro dovette riguardare anche la lancia nel punto di passaggio all’interno della mano, mentre una vernice a base di zolfo risulta infine utilizzata per uniformare il colore della superficie al fine di mimetizzare i particolari non originali. Altri elementi considerati certi sono la corrispondenza del luogo del ritrovamento con un’area portuale già attiva in epoca greca - circostanza che consentirà, come vedremo, di mettere in relazione la presenza dei Bronzi a Riace con il loro trasporto da o verso Roma – e, infine, un pezzo di ceramica, messo a contrasto tra la mano destra e la coscia del Bronzo A, all’evidente scopo di salvaguardare l’integrità della statua durante il viaggio verso la sua destinazione.

LA TESI DI CASTRIZIO | 1) LA TESTA DEL BRONZO ‘A’
L’ipotesi elaborata dal prof. Daniele Castrizio muove innanzitutto da una attenta osservazione di una serie di dettagli delle due sculture, a partire dalla testa del Bronzo ‘A’ che mostra una fascia posizionata all’altezza della fronte. Identificata da alcuni studiosi come ”diadema reale”, in realtà è un elemento che sarebbe rimasto pressoché invisibile sotto l’elmo oltre a non presentare le caratteristiche estremità ricadenti sulle spalle, per cui la conclusione è che si tratti di una protezione in tessuto o in pelle per evitare il contatto dell’elmo corinzio con l’epidermide. E che sulla testa del Bronzo ci fosse un elmo corinzio è dimostrato da tracce ancora perfettamente leggibili sulla statua: si tratta dei due intagli triangolari che si trovano sulla fascia, posti all’altezza delle meningi.


Questi supporti si adattano perfettamente alla rientranza che esisteva tra le paragnatidi (le protezioni per le guance) e il paranuca dell’elmo corinzio e hanno avuto la funzione di fissare il copricapo sulla testa della statua. Rispetto a questi segni, occorre sottolineare come la loro forma peculiare si adatti solo agli elmi di tipo corinzio (per la precisione quelli della metà del V secolo), mentre è assolutamente incompatibile con altre tipologie.


Altre prove della presenza dell’elmo sono l’area conservata liscia e piana sulla nuca della Statua A, non compatibile con l’anatomia umana, ma adattabile perfettamente alla parte posteriore del copricapo corinzio, così come il rigonfiamento artificioso dei capelli, giustificabile unicamente come sporgenza utile a fornire un ulteriore supporto all’elmo, rendendolo più aderente alla capigliatura. Un quarto elemento è poi dato dalla barra di supporto posta sulla parte sommitale della testa, che doveva garantire stabilità all’elmo. Dai segni visibili si nota come il perno originale, rottosi nell’antichità, sia stato sostituito da un altro più robusto, ma con un lavoro visibilmente eseguito in modo impreciso e inaccurato.


2) LA TESTA DEL BRONZO ‘B’
Nel caso del Bronzo ‘B’ la presenza originaria di un elmo è suggerita dalla sagoma della calotta cranica, volutamente deformata per offrire all’elmo un supporto più sicuro di quanto non garantissero perni e altri sostegni. Inoltre in questa statua compare un dettaglio molto raro nelle statue antiche: sulla fronte si notano i segni inconfondibili di un triangolo di rame, che intendeva rappresentare la parte anteriore di una cuffia, mentre, all’altezza dei fori per gli occhi sull’elmo corinzio, è stato posto un rettangolo, sempre dello stesso metallo, realizzato in modo tale da essere visibile dalle aperture. Da un attento raffronto con altre statue antiche si è notato che quel triangolo assolve anche a una funzione di supporto e si incastra perfettamente con la parte frontale dell’elmo.


Osservando lateralmente, appaiono altri segni: la parte superiore delle orecchie che si mostra appena abbozzata, con un foro che indica l’applicazione di un elemento aggiunto, e la traccia di un laccio che segna profondamente la barba su entrambe le guance. Questi due elementi attestano la presenza di paraorecchie e sottogola nella cuffia, mentre i tre supporti che sporgono artificiosamente dalla nuca, secondo Castrizio testimoniano la presenza di un elemento aggiunto, una sorta di paranuca rigido posizionato proprio al di sotto del supporto che sosteneva la parte posteriore dell’elmo.


Incrociando fonti numismatiche, archeologiche e letterarie, Castrizio ritiene che questo paranuca coincida con un elemento correlato, in base ai confronti disponibili, a divinità guerriere, strateghi, tiranni e re. Basta osservare la testa dell’eroe Timoleonte sulle monete di bronzo di Siracusa, quella di Marte sui didrammi d’argento di Roma, diverse statue marmoree di eroi e divinità oppure vari personaggi sui vasi a figure rosse per scorgere questo paranuca inserito in una cuffia con paraorecchie e sottogola, come nel caso di Ettore ritratto dal Pittore di Boston.


Ma cos’era questo copricapo sotteso all’elmo metallico? Secondo le fonti letterarie si tratta del korinthie kynê, una cuffia, probabilmente di cuoio, con paraorecchie, sottogola e paranuca, che serviva a identificare il comandante militare, il re o il tiranno, consentendo agli opliti [soldati della fanteria pesante greca] di riconoscere, durante il combattimento, il loro comandante, rimanendo alle sue spalle, mentre il nemico, posto di fronte, non era in grado di identificarlo.

3) LE ARMI
Espliciti, secondo Castrizio, anche i segni riferibili al tipo di armi in dotazione alle due figure: sono evidenti – dice lo studioso – i segni lasciati dagli scudi oplitici, certamente presenti in origine su entrambe le statue. Nella statua B, a differenza della A, è però rilevabile sulla spalla sinistra una sorta di gancio supplementare, che serviva a distribuire meglio il peso dello scudo, rendendolo più stabile, confermando così – come per l’elmo – la percezione che il Bronzo B vada in qualche modo a migliorare certi dettagli tecnici non perfettamente riusciti nell’altra statua. Chiari anche i segni di una lancia sulla Statua A, che passava attraverso l’indice e il medio della mano destra, in una posizione riscontrabile nel repertorio della statuaria di epoca greca e romana. Anche la Statua B portava una lancia che, rottasi accidentalmente, fu restaurata (da maestranze romane, secondo Castrizio) saldando le due sezioni all’interno del cavo della mano con l’uso di piombo fuso.

4) IDENTITA’ DELLE DUE FIGURE

Rilievo marmoreo con Eteocle, Polinice, Giocasta, Creonte e Antigone (gruppo a sin.), fronte di sarcofago attico da Villa Doria Pamphilj
Sulla scorta delle caratteristiche rilevate e di altri fattori determinanti, Castrizio punta così ad accertare l’identità delle due figure maschili spiegando innanzitutto perché due uomini dotati di armi oplitiche non indossino anche altri elementi di armatura o indumenti. La ragione – dice lo studioso – è che privilegiandosi nel mondo antico la raffigurazione simbolica rispetto a quella naturalistica, nei Bronzi lo scultore ha dovuto realizzare due eroi oggetto di culto religioso, e quindi non poteva che mostrarceli nudi, ma non c’è dubbio che siano in assetto militare.Ma passiamo al quesito cruciale: esistono altre opere dell’antichità che offrano un raffronto con i Bronzi consentendo di identificarli? A questa domanda Castrizio risponde rinviando all’unico confronto reperibile, ossia una scena con cinque personaggi raffigurata su reperti archeologici di varia natura, nella quale – come vedremo – i due Bronzi possono inserirsi con notevole plausibilità. Essa rimanda a una versione del mito del duello fratricida tra Eteocle e Polinice attribuita dai filologi al grande poeta magno-greco Stesicoro di Metauro (VII sec. a.C) e riportata nel Papiro di Lille, custodito in Francia e contenente cospicue parti di una probabile Tebaide. In questa versione la madre Giocasta (regina di Tebe) tenta di dividere i due figli nel momento che precede lo scontro proponendo invano un patto risolutivo: è una scena assente nelle versioni più tarde e più note di Eschilo nei Sette contro Tebe e di Sofocle nell’Edipo tiranno.E’ utile, a questo punto, ricordare la vicenda dei due fratricidi: Polinice, figlio di Edipo e Giocasta, era giunto coi guerrieri argivi nella città di Tebe in Beozia, dato che Eteocle, suo fratello, non aveva mantenuto i patti stretti dopo l’abdicazione del padre Edipo, che prevedevano un comando alterno dei due sulla città. Dopo un anno Eteocle aveva infatti usurpato il comando e condannato Polinice all’esilio perpetuo. Polinice si era quindi recato ad Argo, dove regnava Adrasto, che accettò di allearsi con lui e di inviare sette condottieri contro Tebe per metterlo sul trono. Il finale è noto: i due fratelli si uccideranno a vicenda in duello.La versione di Stesicoro, con l’elemento dell’intervento materno, compare su un discreto numero di sarcofagi attici, formelle in terracotta e urne cinerarie su cui si notano i personaggi del dramma: i due guerrieri pronti allo scontro (con Polinice che scruta Eteocle con sguardo iroso), la vecchia madre che tenta di frapporsi coi seni scoperti per ricordare a entrambi la loro fratellanza, mentre alle spalle di Polinice c’è sua sorella Antigone e accanto a Eteocle c’è un vecchio, che a seconda degli autori è Creonte, fratello di Giocasta, o l’indovino Tiresia (come nei versi di Stesicoro). E’ dunque questo il primo raffronto letterario-archeologico che lo studioso calabrese pone all’attenzione, a cui aggiunge anche quella che ha tutta l’aria di essere una copia romana in marmo del Bronzo B (ora al Musée Royaux des Beaux-Arts de Belgique di Bruxelles, ma proveniente dal Palatino) (Fig. 7). Ci troviamo dunque di fronte a indizi ‘scottanti’, ma manca ancora il segmento finale…il gruppo bronzeo di cui le due statue di Riace avrebbero fatto parte e che dovette essere il principale ‘veicolo’ del mito dei fratricidi nella versione stesicorea.


Reperti ispirati al mito di Eteocle e Polinice nella versione di Stesicoro e presunta copia romana in marmo del Bronzo B | Elaborazione grafica Daniele Castrizio
Ebbene, non c’è dubbio che sia esistito un gruppo statuario che può mettersi in relazione col duello finale dei due fratricidi ed è quello a cui allude l’autore cristiano Taziano l’Assiro, il quale nella sua opera Oratio ad Graecos, composta a Roma nel II sec. d.C., scrive: “Come non è difficile [credere] che teniate in onore il fratricidio, voi che, vedendo le figure di Polinice e di Eteocle, non le ponete in una fossa insieme al loro autore Pitagora, cancellando il ricordo di tale delitto!”. Come si evince dalle sue polemiche parole, si tratta di un gruppo scultoreo dedicato ai due fratelli dal celebre bronzista magno-greco Pitagora di Reggio, vissuto tra il VI e il V secolo a.C. e attivo anche nel Peloponneso oltre che in Calabria; un artista che Plinio il Vecchio, nel I° sec. d.C. definì “capace di rendere come nessun altro i riccioli di barba e capelli, e di fare “respirare” le statue, cioè di rendere perfetta l’anatomia dei vasi sanguigni”. Parole che hanno la potenza di un’illuminazione, se solo ripensiamo alla straordinaria resa anatomica delle due statue di Riace, alle quali i ruoli di Eteocle e Polinice calzano alla perfezione, compreso il ghigno di Polinice che, citato dalle fonti letterarie, ritroviamo sul volto del Bronzo A


Ma un riflesso nitido del gruppo scultoreo di Pitagora di Reggio – secondo Castrizio – sarebbe da ravvisarsi anche nel poema epico Tebaide, opera di Publio Papinio Stazio scritta nel 92 d.C., nella quale – secondo lo studioso – l’autore si sarebbe lasciato ispirare da una conoscenza diretta del gruppo di statue esposto a Roma, forse sul Palatino nella dimora dell’Imperatore, e diventato un modello per vari altri artisti (particolarmente significativo è a tal proposito un sarcofago attico da Villa Doria Pamphilj a Roma | v. Fig. 7 in alto). I versi di Stazio sarebbero insomma un’animazione teatrale di quelle celebri statue, tra cui doveva comparire la madre Giocasta descritta da Stazio “scompigliata nei capelli e nel volto, e nuda nel petto coperto di graffi”. Un’intuizione che Castrizio ritiene confermata in altri versi nei quali si descrive lo ”sguardo ostile” di Polinice verso il fratello Eteocle al suo apparire munito degli emblemi del potere, tra cui “l’elmo regale”; elementi, questi dello sguardo e dell’elmo, che ci riportano rispettivamente all’espressione del Bronzo A (che mostra, minaccioso, i denti), e alla kynê del Bronzo B.*

5) L’ULTIMO VIAGGIO DEI BRONZI
L’ultima questione affrontata da Castrizio riguarda quella del ritrovamento delle due statue a Riace Marina. Cosa ci facevano in quel luogo? Per rispondere a questa domanda occorre ripercorrere le vicissitudini del gruppo statuario: dall’analisi delle terre di fusione sappiamo che i Bronzi furono realizzati ad Argos, nel Peloponneso, dove Eteocle e Polinice erano venerati come eroi; sappiamo inoltre che durante la guerra contro Mitridate, re del Ponto, e poi nel corso della guerra civile tra Mario e Silla (entrambe della prima metà del I sec. a.C.), Argos venne saccheggiata dai Romani, che asportarono importanti opere d’arte trasferendole nella capitale; risulta poi che durante l’età di Augusto, lo scrittore Pausania il Periegeta non vide ad Argos il gruppo dei “Fratricidi”, evidentemente già trasferito a Roma; nel 92 d.C. il poeta Stazio vide infatti il gruppo a Roma e ne trasse ispirazione per la sua Tebaide; in quegli stessi anni il Bronzo B venne sottoposto a un importante lavoro di restauro, con ripristino del braccio destro e dell’avambraccio sinistro danneggiati; verso il 165 d.C. il cristiano Taziano l’Assiro vide il gruppo ancora a Roma e ne parlò nella sua opera Oratio ad Grecos. Dal 165 al 1972, data del rinvenimento dei Bronzi a Riace, le fonti tacciono, ma c’è un reperto che risulta in grado di dirci dell’altro: si tratta di un pezzo di ceramica tardoantica che era collocata, a mo’ di contrasto protettivo, tra la mano destra e la coscia del Bronzo A, dettaglio che suggerisce un ultimo viaggio dei Bronzi, da Roma verso Costantinopoli, quando Costantino il Grande, agli inizi del IV sec. d.C., trasferì nella nuova capitale l’intera collezione imperiale di opere d’arte che si trovava a Roma, come testimonia il libro II dell’Antologia Palatina.


Sarebbe stato dunque in occasione di questo viaggio che la nave che li trasportava, giunta nel Porto di Kaulonia, oggi Porto Forticchio (Riace Marina), venne investita da una mareggiata andando a schiantarsi sulla diga foranea e perdendo il suo carico. Un finale dalle prospettive archeologiche facilmente immaginabili ma, ad oggi, mai seriamente esplorate.


Il tragitto effettivo (in giallo) e quello programmato ma mai portato a compimento a causa del naufragio a Riace (in bianco) | Elaborazione grafica Daniele Castrizio

P. S.
Va ricordato che, nella ”lettura” dei Bronzi di Riace, il prof. Daniele Castrizio non è l’unico ad aver chiamato in causa il mito dei Sette contro Tebe. Prima di lui lo aveva evocato, nel volume I Bronzi di Riace, Il Maestro di Olimpia e i Sette a Tebe (ed. Electa, Milano) lo storico udinese Paolo Moreno, sostenendo che i Bronzi proverrebbero da un donario posto ad Argos, nel Peloponneso, raffigurante “I Sette a Tebe”, opera di Ageladas di Argo (Bronzo A) e di Alkamenes di Atene (Bronzo B). Due diversi autori, dunque, per un progetto unitario sviluppato in più anni. In base a questa interpretazione, il Bronzo A sarebbe da identificare con l’eroe Tideo, e il Bronzo B, con l’indovino Amfiarao, figure sempre citate insieme dalle fonti. Per approfondire l’analisi critica che Castrizio fa di questa e di tutte le altre tesi finora elaborate, e per ulteriori approfondimenti su quella da lui formulata, consiglio di consultare il volume Bronzi di Riace. L’enigma dei due guerrieri di Daniele Castrizio e Cristina Iaria (ed. Città del Sole, Reggio Calabria).



lunedì 3 maggio 2021

Aneddoti curiosi e folli su Caligola




C'è l'imbarazzo della scelta! Cavalli nominati Consoli o Senatori, navi colossali (o meglio, maxi yacht dell'epoca) attrezzate come regge imperiali a passeggio sul vulcanico lago di Nemi negli ameni dintorni dell'Urbe, calzature militari quotidianamente indossate (come se Filippo, principe consorte della regina Elisabetta d'Inghilterra, calzasse anfibi accompagnandoli al doppiopetto), amori promiscui e libagioni da record, perle bevute immerse nell'aceto di vino …
Gaio Giulio Cesare Germanico, noto come Caligola (12-41 d.C.), visse, insieme alle sorelle, in un clima di grande terrore sotto il regno di Tiberio.
Era diretto discendente di Augusto e di Giulio Cesare. Sua madre era Agrippina Maggiore, la figlia del generale di Augusto e suo miglior amico, Marco Vipsanio Agrippa (quello che fece per primo erigere il Pantheon). Il padre era Germanico Giulio Cesare, il generale più famoso e amato al tempo di Augusto, già indicato come possibile suo successore. Ma Caligola era anche il nipote di Marco Antonio, generale di Cesare, avversario di Augusto e marito di Cleopatra. Sua nonna era Antonia Minore, figlia di Marco Antonio e Ottavia, la sorella di Augusto. Dal momento che era evidente questa forte appartenenza alla famiglia Giulia, era inevitabile che il giovane crescesse nell'ambiente di corte, insieme ai soldati. Da qui il soprannome di “piccola caliga”, la classica calzatura chiodata dei legionari, che frequentava al seguito del famoso padre. Tutte queste esperienze fecero sì che Gaio nutrisse sempre un profondo affetto, in particolare, per la sorella Giulia Drusilla (16-38 d.C.). Non sapremo mai se le accuse di incesto con Drusilla (e anche con le altre due sorelle, Agrippina minore -15-59 d.C. - e Giulia Livilla - 18-41 -, per non far torto ad alcuna), che Cassio Dione Cocceaiano (155–235, di molto successivo a Caligola, quindi difficilmente in possesso di informazioni di prima mano) e Gaio Cassio Longino (5 a.C.-69 d.C.) rivolgevano a Caligola, fossero fondate o beceri calunnie.
Alto, colorito livido, sproporzionato, collo e gambe gracili, occhi e tempie infossati, fronte larga, pochi capelli e assai villoso in tutto il resto del corpo: così lo descriveva Gaio Svetonio Tranquillo (70 ca.–140 ca.), che non lo aveva mai visto in vita sua, manco per scherzo. Forse, Gaio aveva effettivamente rapporti sessuali con le sorelle. Svetonio tiene comunque ad informarci del fatto che i rapporti incestuosi tra Gaio e Drusilla iniziarono tra il 29 e il 32, periodo che trascorsero in casa della nonna Antonia minore (36 a.C.-37 d.C.), che pare li avesse sorpresi più volte in comportamenti … inequivocabili. Di certo, Drusilla era la sorella preferita da Caligola, che l’aveva fatta liberare dal precedente matrimonio con Lucio Cassio Longino (I sec. a.C.-41 d.C.) e fatta risposare con Marco Emilio Lepido (6–39 d.C.), bisnipote del triumviro e grande amico di Caligola fin dalla giovinezza.
In seguito, Caligola fece pure assassinare il primo marito dell'amata sorella, gli avevano detto che un Cassio avrebbe tramato contro di lui … e quindi, Lucio Cassio Longino, zac!! E tanto per non smentirsi, pure il secondo marito dell'amata sorella fece una brutta fine: nel 39, infatti, Caligola rese pubbliche lettere delle sorelle Agrippina minore e Giulia Livilla, dalle quali emergevano (presunte) relazioni di corna di entrambe con il secondo marito della sorella. Quindi, anche per lui, zac!! L'amico di mille merende fu giustiziato e le sue ossa buttate. Dove, non si sa. Le sorelle Agrippina e Livilla? esiliate.
Tornando al nostro eroe Gaio Caligola, ad un certo punto nel 37 si ammalò gravemente: con un atto senza precedenti, addirittura nominò sua sorella Drusilla erede dei suoi beni e dell'Impero. Purtroppo, l’idillio si spezzò quando Drusilla morì improvvisamente il 10 giugno del 38: e lo sconforto di Gaio, che nutriva per la sorella un affetto quasi morboso, fu smisurato, incontenibile.
Caligola ordinò la sospensione di ogni affare e un lutto generale, durante il quale fu considerato delitto di lesa Maestà il ridere, il lavarsi e persino il pranzare con la propria moglie, i parenti e i propri figli. In quei giorni, bastava che uno avesse ospitato o salutato qualcuno o, addirittura, che si fosse fatto un bagno, per andare incontro a severe punizioni. Un tale, per il solo fatto di aver venduto acqua calda da mescolare al vino (che schifezza), fu processato e giustiziato per "lesa Maestà". Per Drusilla fu organizzato un funerale degno di un Imperatore: i Pretoriani e l’Ordine Equestre sfilarono in parata intorno alla sua pira, mentre i fanciulli della nobiltà si esibivano nei Ludi troiani (scontri a cavallo con spade di legno, in cui era esibita la capacità di controllo e domo del cavaliere sull'animale). Il marito Lepido pronunciò l’elogio funebre di Drusilla, mentre Caligola le rese omaggio con esequie pubbliche e facendole attribuire onori che erano stati tributati in passato solo a Livia (Livia Drusilla Claudia, 58 a.C.-29 d.C., moglie di Gaio Ottaviano Augusto, madre di Tiberio e Druso maggiore, nonna di Germanico e Claudio, nonché bisnonna di Caligola e trisavola di Nerone). Venne decretato, inoltre, che le fosse costruita una tomba personale, di cui fossero ministri venti sacerdoti e sacerdotesse e che nell'anniversario della sua nascita si celebrasse una festa simile ai Ludi Megalesi (festività di aprile della durata di sei giorni: festa scenica, non circense) in onore di Cibele, che le venisse innalzata una effigie d’oro in Senato, che Drusilla venisse deificata, col nome di Pantea, divinità virtuosa e fedele al marito (quale? il primo? il secondo? il fratello imperatore? boh …) e che nel tempio di Venere le fosse dedicata una statua della stessa grandezza di quella della dea. Un senatore di nome Gaio Livio Gemino, che asseriva - o aveva giurato sui propri figli - di aver visto Drusilla salire in cielo tra gli Dei, fu ricompensato da Caligola con un milione di sesterzi (ndr: furbacchione!). Infine, in onore della sorella, Caligola diede il nome di Giulia Drusilla alla figlia avuta da Milonia Cesonia, la sua ultima moglie. Insomma, nonostante la cattiva fama che ha sempre accompagnato Caligola fin dall'antichità, pure lui aveva un cuore …



domenica 2 maggio 2021

Il peggior imperatore romano


"Oderint dum metuant." (che mi odino, purché mi temano).
Cit. Gaio Cesare Germanico, conosciuto come Caligola. Non so se sia il peggiore tra tutti, ma il più folle senza ombra di dubbio. Un tiranno con deliri di onnipotenza, stravagante e mentalmente instabile.
(No, non solo perché nominò senatore un cavallo. Anzi, quella fu una metafora piuttosto originale, in un certo senso…)


Discendente dei Giulia, Caligola crebbe nell'ambiente di corte assieme ai soldati (infatti "Caligola" è il soprannome per indicare una piccola caliga, o scarpetta, la classica calzatura dei legionari).
Amava fare il bagno nell'oro, si circondava di gioielli, modellava carni d'oro che spesso serviva a tavola e beveva perle naturali immerse in calici di aceto di vino. Si fece dedicare un tempio poiché credeva di essere la reincarnazione di Giove (spesso interloquiva da solo credendo di essere Giove ed era convinto di essere in grado di parlare con gli Dei).
Amava vestire in modo appariscente ed utilizzava spesso gioielli tipicamente femminili e scarpe da donna. Mmh casus gender? Era soprannominato "la principessa di Bitinia"
Commise incesti con le sue 3 sorelle ed organizzava orge scandalose.
Sentiva dentro una forte sete di sangue che sfogava attraverso crudeltà disumane contro chi non gli andava a genio, anche senza motivo apparente. Inoltre spesso dimenticava chi condannava a morte perché era solito chiedere una seconda condanna.
Provava forte disprezzo nei confronti delle donne tanto da stuprarle in pubblico e si divertiva a molestarle davanti ai loro mariti impossibilitati a reagire (spesso invitava a cena coppie di sposi, prendeva con sè la donna più attraente, portandola in una sala accanto e abusando di lei, poi tornava al banchetto, restituendo la donna al marito; criticava o elogiava il rapporto, arricchendolo di particolari.)
Uccise una neonata sbattendola più volte contro un muro.
Amava molto gli intrighi e collezionava veleni di ogni tipo. Una volta sorprese un ladro, gli taglió le mani, gliele appese al collo e lo mostró come trofeo al pubblico.
Una sera, colto da un raptus, uccise decine di senatori. Il giorno dopo, dispiaciuto per i padri delle vittime, andò personalmente a trovarli, liberandoli dalla sofferenza uccidendo anche loro.
La storia ci dice che Caligola, giunto sulla costa, in procinto di prendere mare per la Britannia, per qualche motivo tornò indietro; eppure alcuni storici antichi raccontano che, mentre si mettevano le navi in acqua, l'imperatore bloccò tutto ordinando imperiosamente all'esercito di raccogliere le conchiglie, che poi portò a Roma come bottino di guerra.












sabato 1 maggio 2021

Quando uno schiavo veniva liberato nell'Antica Roma, o nel Sud America, che garanzia aveva che qualcun altro non lo avrebbe più vessato? Quando veniva rilasciato, riceveva un documento speciale o una sorta di protezione?


Bella domanda. Qui vorrei fare un punto. Nell’impero romano c’erano 3 tipologie contrattuali per quanto riguarda la gestione degli esseri umani.
  1. Potevi essere schiavo quindi a tutti gli effetti appartenevi a qualcuno. Eri semplicemente un oggetto da usare, vendere o rivendere.
  2. Potevi essere libero ma non cittadino. Guadagnarsi la libertà come puoi immaginare non dava tanto valore aggiunto se non riuscivi ad ottenere anche la cittadinanza.
  3. Potevi essere cittadino, avere quindi a tutti gli effetti ogni privilegio concesso ai cittadini compresa la protezione. In sostanza essere cittadino era più importante di essere libero nell’impero romano.
Questo sistema aveva una logica tale per favorire a chi possedeva schiavi di non perdersi gli assetti a lungo periodo. Ottenere la libertà richiedeva tanto tempo mentre ottenere la cittadinanza altrettanto. Solo quelli liberi potevano richiedere la cittadinanza ma la libertà non la garantiva.
Visto che libertà e cittadinanza dovevano essere richieste in sequenza, come puoi immaginare lo schiavo aveva 2 prezzi da pagare. Il primo prezzo era quello per ottenere la libertà mentre il secondo prezzo era quello per ottenere la cittadinanza per avere quindi tutti gli altri diritti.
Molti schiavi dopo aver ottenuto la libertà si sono resi conto che era una fregatura. Inoltre, la cittadinanza non era così facile da avere subito dopo. L’unica alternativa migliore era quindi quella di ritornare volontariamente nella schiavitù oppure vivere liberi ma rischiare la pelle nella lunga attesa della cittadinanza. Infatti molti schiavi liberi decisero di ritornare alla loro vita precedente in catene.
Quindi immagina la libertà di uno schiavo nell’impero romano simile alla libertà di un immigrato senza documenti presente oggi sul territorio italiano. Insomma, senza documenti sei libero ma praticamente non puoi fare nulla e non vieni protetto. Per questo ti serve la cittadinanza. Ma come all’epoca, la cittadinanza in Italia è la cosa più difficile da ottenere anche oggi.
Ora vorrei fare un altro punto su questo tema. Alcuni schiavi nell’impero romano venivano comunque trattati meglio rispetto agli altri . Per esempio alcuni di loro potevano tranquillamente proseguire un percorso intellettuale, scrivere libri oppure aiutare i loro padroni nelle faccende finanziare.
Perché i padroni concedevano agli schiavi questi privilegi? Bhe’, se ci pensi anche qui aveva una logica. Se lo schiavo sbagliava a gestire le faccende finanziare veniva punito. Così facendo, il padrone riusciva a liberarsi di molteplici responsabilità. I romani erano molto furbi all’epoca, riuscendo quindi a legalizzare qualsiasi menzogna con un semplice decreto di legge.
Non pensare però che tutti gli schiavi stavano da Dio. Alcuni padroni per esempio avevano questa parafilia di infliggere dolore ai loro schiavi senza nessuna ragione. Più meno come nei giochi BDSM oggi. L’unica differenza è che il BDSM oggi è un rapporto consenziente basato sulla fiducia. All’epoca non era così.
Un caso noto di sadismo è la storia di uno schiavo chiamato Epitteto. Epitteto era uno stoico quindi si mise in testa di non mostrare i suoi sentimenti di disagio e rabbia a fronte degli altri. Insomma, Epitteto nonostante schiavo era sempre sereno.
Al suo padrone, al contrario, questo concetto non piaceva. Lui voleva vedere negli occhi dei suoi schiavi la sofferenza. Per farlo soffrire, a Epitteto gli viene rotta una gamba. Giusto così per vedere come risponde all’evento, senza nessun motivo. Quando però Epittetto rimane indifferente, il suo padrone si arrabbia e prosegue a torturarlo facendogli male sulla ferita. Epitteto continua a non essere disturbato mostrando indifferenza. Questo evento fa infuriare il suo padrone ancora di più in quanto il suo fetish non viene materializzato.
Epitteto rimane zoppo per tutta la sua vita e viene poi spesso sottoposto a simili eventi.