Molto probabilmente Eteocle e Polinice,
facenti parte di un gruppo statuario di ben 5 bronzi. Niente, però,
è certo. Facciamo una ricostruzione.
CHI SONO I BRONZI DI RIACE? CHI LI
HA SCOLPITI?
Sono due delle principali domande che
numerosi studiosi si sono posti fin da quel lontano 16 agosto 1972 in
cui le due celebri statue greche del V° secolo a.C., capolavori di
rara bellezza, furono rinvenute in Calabria a soli 8 metri di
profondità, nello specchio d’acqua antistante la località di
Porto Forticchio, a Riace Marina. E se quelle due domande stentano a
trovare una risposta certa, mistero e ambiguità persistono ancora
intorno a quel celebre recupero; infatti la possibilità che in
quell’area ci fossero altri reperti risulta tutt’altro che
peregrina alla luce di documenti, testimonianze e anche di certe
“anomalie metalliche”, mai verificate fino in fondo, riscontrate
nella stessa area dalla nave super attrezzata di un magnate americano
autorizzato a ricercare antichi luoghi greci di approdo. Insomma ce
n’è abbastanza per un giallo che dura da 47 anni. Ma in questa
sede accantoniamo il ”giallo” che coinvolge luoghi, persone e
documenti sul recupero, per dedicarci a quello dell’identità e
dell’origine di queste due splendide statue, sebbene i due enigmi,
come vedremo, non siano affatto disgiunti l’uno dall’altro.
LE NUMEROSE TESI INTERPRETATIVE
I Bronzi di Riace fin dal loro
ritrovamento hanno fortemente suscitato l’attenzione degli studiosi
spingendoli a interrogarsi sull’identità dei personaggi, sul loro
autore e sulla loro datazione. E mentre su quest’ultimo punto vi è
quasi unanimità nel ritenere che si tratti di due opere del V°
secolo a.C., proprie di quella fase della scultura greca che va sotto
il nome di ”stile severo”, caratterizzata da un’arte capace di
farsi perfetta imitazione della realtà (mimesis), sugli altri due
aspetti si sono susseguite nel tempo non meno di 11 tesi
interpretative che hanno via via chiamato in causa atleti o eroi
della storia o della mitologia, e grandi nomi della scultura come
Fidia, Mirone, Pitagora di Reggio, Alakamenes, Agelada. Non ci
soffermeremo su tutte le ipotesi - molte di esse non essendo più in
grado di reggere a una serie di osservazioni critiche o al confronto
con nuovi dati accertati e incontrovertibili – ma solo su una delle
più recenti e affascinanti, quella di Daniele Castrizio, docente di
numismatica presso l’Università di Messina, fortemente impegnato
nell’attività di divulgatore scientifico, che svolge ricorrendo a
strumenti multimediali, teatro compreso. Lo dimostra la sua
‘‘Metaconferenza sui Bronzi di Riace”, un vero e proprio
spettacolo composto da parti divulgative scientifiche, recitazione,
canto e video, in cui si alternano tre figure – un Professore
universitario e Archeologo (Daniele Castrizio), un Maestro
Musicantore (Fulvio Cama) e un Grafico (Saverio Autellitano) – in
un racconto inedito e coinvolgente, premiato di recente con la
Medaglia del Presidente della Repubblica.
Daniele Castrizio
I FATTI CONSIDERATI CERTI
Prima però di esporre la tesi di
Castrizio, vediamo di fissare gli aspetti ad oggi considerati certi.
Le due statue, denominate “A” e “B”, sono alte
rispettivamente 1,98 e 1,97 m, e il loro peso, originariamente di 400
kg, è diminuito a circa 160 kg, in virtù della rimozione della
terra di fusione presente al loro interno, materiale le cui analisi,
eseguite a Roma e a Glasgow, hanno permesso di dimostrare che i due
bronzi sono stati realizzati ad Argos, nel Peloponneso, nello stesso
periodo e nella stessa officina; non a caso lo stile delle due opere,
coerentemente con il luogo di produzione, non è attico ma rimanda a
stilemi dorici, propri del Peloponneso e dell’Occidente greco; va
inoltre aggiunto che le numerose e sorprendenti similitudini lasciano
propendere per un medesimo artista e per un progetto unitario. Da
Argo le opere sono arrivate in Italia presumibilmente a seguito di un
saccheggio romano e risultano essere state sottoposte a interventi di
restauro dopo una loro lunga fruizione pubblica; il restauro dovette
avvenire a Roma tra il periodo augusteo e quello degli imperatori
della dinastia Giulio-Claudia, come dimostra l’uso di piombo
proveniente dalle miniere ateniesi del monte Laurion, chiuse alla
metà del I sec. d.C. Tali interventi riguardarono, nel Bronzo A,
l’elmo e lo scudo (di cui persistono solo alcuni elementi ad essi
correlati), mentre nel Bronzo B braccio destro e avambraccio sinistro
risultano modellati ex novo previo calco delle parti danneggiate, con
tecniche simili a quelle applicate a Roma su alcune note statue di
epoca classica. Un restauro dovette riguardare anche la lancia nel
punto di passaggio all’interno della mano, mentre una vernice a
base di zolfo risulta infine utilizzata per uniformare il colore
della superficie al fine di mimetizzare i particolari non originali.
Altri elementi considerati certi sono la corrispondenza del luogo del
ritrovamento con un’area portuale già attiva in epoca greca -
circostanza che consentirà, come vedremo, di mettere in relazione la
presenza dei Bronzi a Riace con il loro trasporto da o verso Roma –
e, infine, un pezzo di ceramica, messo a contrasto tra la mano destra
e la coscia del Bronzo A, all’evidente scopo di salvaguardare
l’integrità della statua durante il viaggio verso la sua
destinazione.
LA TESI DI CASTRIZIO | 1) LA TESTA
DEL BRONZO ‘A’
L’ipotesi elaborata dal prof. Daniele
Castrizio muove innanzitutto da una attenta osservazione di una serie
di dettagli delle due sculture, a partire dalla testa del Bronzo ‘A’
che mostra una fascia posizionata all’altezza della fronte.
Identificata da alcuni studiosi come ”diadema reale”, in realtà
è un elemento che sarebbe rimasto pressoché invisibile sotto l’elmo
oltre a non presentare le caratteristiche estremità ricadenti sulle
spalle, per cui la conclusione è che si tratti di una protezione in
tessuto o in pelle per evitare il contatto dell’elmo corinzio con
l’epidermide. E che sulla testa del Bronzo ci fosse un elmo
corinzio è dimostrato da tracce ancora perfettamente leggibili sulla
statua: si tratta dei due intagli triangolari che si trovano sulla
fascia, posti all’altezza delle meningi.
Questi supporti si adattano
perfettamente alla rientranza che esisteva tra le paragnatidi (le
protezioni per le guance) e il paranuca dell’elmo corinzio e hanno
avuto la funzione di fissare il copricapo sulla testa della statua.
Rispetto a questi segni, occorre sottolineare come la loro forma
peculiare si adatti solo agli elmi di tipo corinzio (per la
precisione quelli della metà del V secolo), mentre è assolutamente
incompatibile con altre tipologie.
Altre prove della presenza dell’elmo
sono l’area conservata liscia e piana sulla nuca della Statua A,
non compatibile con l’anatomia umana, ma adattabile perfettamente
alla parte posteriore del copricapo corinzio, così come il
rigonfiamento artificioso dei capelli, giustificabile unicamente come
sporgenza utile a fornire un ulteriore supporto all’elmo,
rendendolo più aderente alla capigliatura. Un quarto elemento è poi
dato dalla barra di supporto posta sulla parte sommitale della testa,
che doveva garantire stabilità all’elmo. Dai segni visibili si
nota come il perno originale, rottosi nell’antichità, sia stato
sostituito da un altro più robusto, ma con un lavoro visibilmente
eseguito in modo impreciso e inaccurato.
2) LA TESTA DEL BRONZO ‘B’
Nel caso del Bronzo ‘B’ la presenza
originaria di un elmo è suggerita dalla sagoma della calotta
cranica, volutamente deformata per offrire all’elmo un supporto più
sicuro di quanto non garantissero perni e altri sostegni. Inoltre in
questa statua compare un dettaglio molto raro nelle statue antiche:
sulla fronte si notano i segni inconfondibili di un triangolo di
rame, che intendeva rappresentare la parte anteriore di una cuffia,
mentre, all’altezza dei fori per gli occhi sull’elmo corinzio, è
stato posto un rettangolo, sempre dello stesso metallo, realizzato in
modo tale da essere visibile dalle aperture. Da un attento raffronto
con altre statue antiche si è notato che quel triangolo assolve
anche a una funzione di supporto e si incastra perfettamente con la
parte frontale dell’elmo.
Osservando lateralmente, appaiono altri
segni: la parte superiore delle orecchie che si mostra appena
abbozzata, con un foro che indica l’applicazione di un elemento
aggiunto, e la traccia di un laccio che segna profondamente la barba
su entrambe le guance. Questi due elementi attestano la presenza di
paraorecchie e sottogola nella cuffia, mentre i tre supporti che
sporgono artificiosamente dalla nuca, secondo Castrizio testimoniano
la presenza di un elemento aggiunto, una sorta di paranuca rigido
posizionato proprio al di sotto del supporto che sosteneva la parte
posteriore dell’elmo.
Incrociando fonti numismatiche,
archeologiche e letterarie, Castrizio ritiene che questo paranuca
coincida con
un elemento correlato, in
base ai confronti disponibili,
a divinità guerriere,
strateghi, tiranni e re.
Basta osservare la testa dell’eroe
Timoleonte sulle monete di bronzo di Siracusa, quella di Marte sui
didrammi d’argento di Roma, diverse statue marmoree di eroi e
divinità oppure vari personaggi sui vasi a figure rosse per scorgere
questo
paranuca inserito in una cuffia
con paraorecchie e sottogola,
come nel caso di Ettore ritratto
dal Pittore di Boston.
Ma cos’era questo copricapo sotteso
all’elmo metallico? Secondo le fonti letterarie si tratta del
korinthie kynê, una cuffia, probabilmente di cuoio, con
paraorecchie, sottogola e paranuca, che serviva a identificare il
comandante militare, il re o il tiranno, consentendo agli opliti
[soldati della fanteria pesante greca] di riconoscere, durante il
combattimento, il loro comandante, rimanendo alle sue spalle, mentre
il nemico, posto di fronte, non era in grado di identificarlo.
3) LE ARMI
Espliciti, secondo Castrizio, anche i
segni riferibili al tipo di armi in dotazione alle due figure: sono
evidenti – dice lo studioso – i segni lasciati dagli scudi
oplitici, certamente presenti in origine su entrambe le statue. Nella
statua B, a differenza della A, è però rilevabile sulla spalla
sinistra una sorta di gancio supplementare, che serviva a distribuire
meglio il peso dello scudo, rendendolo più stabile, confermando così
– come per l’elmo – la percezione che il Bronzo B vada in
qualche modo a migliorare certi dettagli tecnici non perfettamente
riusciti nell’altra statua. Chiari anche i segni di una lancia
sulla Statua A, che passava attraverso l’indice e il medio della
mano destra, in una posizione riscontrabile nel repertorio della
statuaria di epoca greca e romana. Anche la Statua B portava una
lancia che, rottasi accidentalmente, fu restaurata (da maestranze
romane, secondo Castrizio) saldando le due sezioni all’interno del
cavo della mano con l’uso di piombo fuso.
4) IDENTITA’ DELLE DUE FIGURE
Rilievo marmoreo con Eteocle, Polinice,
Giocasta, Creonte e Antigone (gruppo a sin.), fronte di sarcofago
attico da Villa Doria Pamphilj
Sulla scorta delle caratteristiche
rilevate e di altri fattori determinanti, Castrizio punta così ad
accertare l’identità delle due figure maschili spiegando
innanzitutto perché due uomini dotati di armi oplitiche non
indossino anche altri elementi di armatura o indumenti. La ragione –
dice lo studioso – è che privilegiandosi nel mondo antico la
raffigurazione simbolica rispetto a quella naturalistica, nei Bronzi
lo scultore ha dovuto realizzare due eroi oggetto di culto religioso,
e quindi non poteva che mostrarceli nudi, ma non c’è dubbio che
siano in assetto militare.Ma passiamo al quesito cruciale: esistono
altre opere dell’antichità che offrano un raffronto con i Bronzi
consentendo di identificarli? A questa domanda Castrizio risponde
rinviando all’unico confronto reperibile, ossia una scena con
cinque personaggi raffigurata su reperti archeologici di varia
natura, nella quale – come vedremo – i due Bronzi possono
inserirsi con notevole plausibilità. Essa rimanda a una versione del
mito del duello fratricida tra Eteocle e Polinice attribuita dai
filologi al grande poeta magno-greco Stesicoro di Metauro (VII sec.
a.C) e riportata nel Papiro di Lille, custodito in Francia e
contenente cospicue parti di una probabile Tebaide. In questa
versione la madre Giocasta (regina di Tebe) tenta di dividere i due
figli nel momento che precede lo scontro proponendo invano un patto
risolutivo: è una scena assente nelle versioni più tarde e più
note di Eschilo nei Sette contro Tebe e di Sofocle nell’Edipo
tiranno.E’ utile, a questo punto, ricordare la vicenda dei due
fratricidi: Polinice, figlio di Edipo e Giocasta, era giunto coi
guerrieri argivi nella città di Tebe in Beozia, dato che Eteocle,
suo fratello, non aveva mantenuto i patti stretti dopo l’abdicazione
del padre Edipo, che prevedevano un comando alterno dei due sulla
città. Dopo un anno Eteocle aveva infatti usurpato il comando e
condannato Polinice all’esilio perpetuo. Polinice si era quindi
recato ad Argo, dove regnava Adrasto, che accettò di allearsi con
lui e di inviare sette condottieri contro Tebe per metterlo sul
trono. Il finale è noto: i due fratelli si uccideranno a vicenda in
duello.La versione di Stesicoro, con l’elemento dell’intervento
materno, compare su un discreto numero di sarcofagi attici, formelle
in terracotta e urne cinerarie su cui si notano i personaggi del
dramma: i due guerrieri pronti allo scontro (con Polinice che scruta
Eteocle con sguardo iroso), la vecchia madre che tenta di frapporsi
coi seni scoperti per ricordare a entrambi la loro fratellanza,
mentre alle spalle di Polinice c’è sua sorella Antigone e accanto
a Eteocle c’è un vecchio, che a seconda degli autori è Creonte,
fratello di Giocasta, o l’indovino Tiresia (come nei versi di
Stesicoro). E’ dunque questo il primo raffronto
letterario-archeologico che lo studioso calabrese pone
all’attenzione, a cui aggiunge anche quella che ha tutta l’aria
di essere una copia romana in marmo del Bronzo B (ora al Musée
Royaux des Beaux-Arts de Belgique di Bruxelles, ma proveniente dal
Palatino) (Fig. 7). Ci troviamo dunque di fronte a indizi
‘scottanti’, ma manca ancora il segmento finale…il gruppo
bronzeo di cui le due statue di Riace avrebbero fatto parte e che
dovette essere il principale ‘veicolo’ del mito dei fratricidi
nella versione stesicorea.
Reperti ispirati al mito di Eteocle e
Polinice nella versione di Stesicoro e presunta copia romana in marmo
del Bronzo B | Elaborazione grafica Daniele Castrizio
Ebbene, non c’è dubbio che sia
esistito un gruppo statuario che può mettersi in relazione col
duello finale dei due fratricidi ed è quello a cui allude l’autore
cristiano Taziano l’Assiro, il quale nella sua opera Oratio ad
Graecos, composta a Roma nel II sec. d.C., scrive: “Come non è
difficile [credere] che teniate in onore il fratricidio, voi che,
vedendo le figure di Polinice e di Eteocle, non le ponete in una
fossa insieme al loro autore Pitagora, cancellando il ricordo di tale
delitto!”. Come si evince dalle sue polemiche parole, si tratta di
un gruppo scultoreo dedicato ai due fratelli dal celebre bronzista
magno-greco Pitagora di Reggio, vissuto tra il VI e il V secolo a.C.
e attivo anche nel Peloponneso oltre che in Calabria; un artista che
Plinio il Vecchio, nel I° sec. d.C. definì “capace di rendere
come nessun altro i riccioli di barba e capelli, e di fare
“respirare” le statue, cioè di rendere perfetta l’anatomia dei
vasi sanguigni”. Parole che hanno la potenza di un’illuminazione,
se solo ripensiamo alla straordinaria resa anatomica delle due statue
di Riace, alle quali i ruoli di Eteocle e Polinice calzano alla
perfezione, compreso il ghigno di Polinice che, citato dalle fonti
letterarie, ritroviamo sul volto del Bronzo A
Ma un riflesso nitido del gruppo
scultoreo di Pitagora di Reggio – secondo Castrizio – sarebbe da
ravvisarsi anche nel poema epico Tebaide, opera di Publio Papinio
Stazio scritta nel 92 d.C., nella quale – secondo lo studioso –
l’autore si sarebbe lasciato ispirare da una conoscenza diretta del
gruppo di statue esposto a Roma, forse sul Palatino nella dimora
dell’Imperatore, e diventato un modello per vari altri artisti
(particolarmente significativo è a tal proposito un sarcofago attico
da Villa Doria Pamphilj a Roma | v. Fig. 7 in alto). I versi di
Stazio sarebbero insomma un’animazione teatrale di quelle celebri
statue, tra cui doveva comparire la madre Giocasta descritta da
Stazio “scompigliata nei capelli e nel volto, e nuda nel petto
coperto di graffi”. Un’intuizione che Castrizio ritiene
confermata in altri versi nei quali si descrive lo ”sguardo ostile”
di Polinice verso il fratello Eteocle al suo apparire munito degli
emblemi del potere, tra cui “l’elmo regale”; elementi, questi
dello sguardo e dell’elmo, che ci riportano rispettivamente
all’espressione del Bronzo A (che mostra, minaccioso, i denti), e
alla kynê del Bronzo B.*
5) L’ULTIMO VIAGGIO DEI BRONZI
L’ultima questione affrontata da
Castrizio riguarda quella del ritrovamento delle due statue a Riace
Marina. Cosa ci facevano in quel luogo? Per rispondere a questa
domanda occorre ripercorrere le vicissitudini del gruppo statuario:
dall’analisi delle terre di fusione sappiamo che i Bronzi furono
realizzati ad Argos, nel Peloponneso, dove Eteocle e Polinice erano
venerati come eroi; sappiamo inoltre che durante la guerra contro
Mitridate, re del Ponto, e poi nel corso della guerra civile tra
Mario e Silla (entrambe della prima metà del I sec. a.C.), Argos
venne saccheggiata dai Romani, che asportarono importanti opere
d’arte trasferendole nella capitale; risulta poi che durante l’età
di Augusto, lo scrittore Pausania il Periegeta non vide ad Argos il
gruppo dei “Fratricidi”, evidentemente già trasferito a Roma;
nel 92 d.C. il poeta Stazio vide infatti il gruppo a Roma e ne trasse
ispirazione per la sua Tebaide; in quegli stessi anni il Bronzo B
venne sottoposto a un importante lavoro di restauro, con ripristino
del braccio destro e dell’avambraccio sinistro danneggiati; verso
il 165 d.C. il cristiano Taziano l’Assiro vide il gruppo ancora a
Roma e ne parlò nella sua opera Oratio ad Grecos. Dal 165 al 1972,
data del rinvenimento dei Bronzi a Riace, le fonti tacciono, ma c’è
un reperto che risulta in grado di dirci dell’altro: si tratta di
un pezzo di ceramica tardoantica che era collocata, a mo’ di
contrasto protettivo, tra la mano destra e la coscia del Bronzo A,
dettaglio che suggerisce un ultimo viaggio dei Bronzi, da Roma verso
Costantinopoli, quando Costantino il Grande, agli inizi del IV sec.
d.C., trasferì nella nuova capitale l’intera collezione imperiale
di opere d’arte che si trovava a Roma, come testimonia il libro II
dell’Antologia Palatina.
Sarebbe stato dunque in occasione di
questo viaggio che la nave che li trasportava, giunta nel Porto di
Kaulonia, oggi Porto Forticchio (Riace Marina), venne investita da
una mareggiata andando a schiantarsi sulla diga foranea e perdendo il
suo carico. Un finale dalle prospettive archeologiche facilmente
immaginabili ma, ad oggi, mai seriamente esplorate.
Il tragitto effettivo (in giallo) e
quello programmato ma mai portato a compimento a causa del naufragio
a Riace (in bianco) | Elaborazione grafica Daniele Castrizio
P. S.
Va ricordato che, nella ”lettura”
dei Bronzi di Riace, il prof. Daniele Castrizio non è l’unico ad
aver chiamato in causa il mito dei Sette contro Tebe. Prima di lui lo
aveva evocato, nel volume I Bronzi di Riace, Il Maestro di Olimpia e
i Sette a Tebe (ed. Electa, Milano) lo storico udinese Paolo Moreno,
sostenendo che i Bronzi proverrebbero da un donario posto ad Argos,
nel Peloponneso, raffigurante “I Sette a Tebe”, opera di Ageladas
di Argo (Bronzo A) e di Alkamenes di Atene (Bronzo B). Due diversi
autori, dunque, per un progetto unitario sviluppato in più anni. In
base a questa interpretazione, il Bronzo A sarebbe da identificare
con l’eroe Tideo, e il Bronzo B, con l’indovino Amfiarao, figure
sempre citate insieme dalle fonti. Per approfondire l’analisi
critica che Castrizio fa di questa e di tutte le altre tesi finora
elaborate, e per ulteriori approfondimenti su quella da lui
formulata, consiglio di consultare il volume Bronzi di Riace.
L’enigma dei due guerrieri di Daniele Castrizio e Cristina Iaria
(ed. Città del Sole, Reggio Calabria).
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