
Le macchine da guerra usate dai Romani
furono in parte tradizionali ma in gran parte con grandi invenzioni e
innovazioni che si protarranno nell'uso fino al Medioevo e al
Rinascimento. Gli ingegneri militari romani furono capaci come pochi
e i legionari furono esecutori ineguagliabili.
Soprattutto
le armi da assedio (apparata oppugnandarum urbium) rappresentarono la
grande forza di conquista dell'esercito romano. Con le macchine i
romani abbatterono o superarono le mura delle città assediate,
insieme a congegni di artiglieria, in parte copiate dai Greci della
vicina Magna Grecia.
I romani copiarono il meglio di tutto
riuscendo anche a migliorarlo, e inventarono di tutto.

« I Romani, allestiti questi mezzi,
pensavano di dare l'assalto alle torri, ma Archimede, avendo
preparato macchine per lanciare dardi a ogni distanza, mirando agli
assalitori con le baliste e con catapulte che colpivano più lontano
e sicuro, ferì molti soldati e diffuse grave scompiglio e disordine
in tutto l'esercito; quando poi le macchine lanciavano troppo
lontano, ricorreva ad altre meno potenti che colpissero alla distanza
richiesta. Quando i Romani furono entro il tiro dei dardi, Archimede
architettò un'altra macchina contro i soldati imbarcati sulle navi:
dalla parte interna del muro fece aprire frequenti feritoie
dell'altezza di un uomo, larghe circa un palmo dalla parte esterna:
presso di queste fece disporre arcieri e scorpioncini e colpendoli
attraverso le feritoie metteva fuori combattimento i soldati
imbarcati. Quando essi tentavano di sollevare le sambuche, ricorreva
a macchine che aveva fatto preparare lungo il muro e che, di solito
invisibili, al momento del bisogno si legavano minacciose al di sopra
del muro e sporgevano per gran tratto con le corna fuori dai merli:
queste potevano sollevare pietre del peso di dieci talenti e anche
blocchi di piombo. Quando le sambuche si avvicinavano, facevano
girare con una corda nella direzione richiesta l'estremità della
macchina e mediante una molla scagliavano una pietra: ne seguiva che
non soltanto la sambuca veniva infranta ma pure la nave che la
trasportava e i marinai correvano estremo pericolo. »
(Polibio
- Le Storie)
Usarono le scale d'assedio, l'ariete, la falce
murale, la rampa d'assedio, la torre mobile, la balista, la
catapulta, la carrobalista, la chierobalista, lo scorpio, la
manubalista, l'onagro, il corvo.

SCALE D'ASSEDIO
La
scala d'assedio fu il primo strumento d'assedio utilizzato fin dalla
notte dei tempi. Esse servivano per scalare facilmente le mura
nemiche, usate anche da egiziani e assiri, poi dagli elleni e infine
dai romani. Naturalmente erano proporzionate all'altezza del
muro.
Polibio
ne narra l'uso durante la II Guerra Punica:
«
Per quanto riguarda la corretta misura delle scale, il metodo di
calcolo è il seguente: se da un complice viene fornita l'altezza
delle mura, risulta evidente quale dovrà essere la corretta misura
delle scale; se infatti l'altezza del muro è ad esempio 10, le scale
dovranno avere una lunghezza di 12 abbondante. Per ottenere poi la
giusta inclinazione della scala, per coloro che vi salgono, questa
dovrà avere la base ad una distanza dalle mura pari alla metà della
loro lunghezza, perché una maggiore distanza dal muro ne compromette
la resistenza quando la scala è affollata dai soldati che vi si
arrampicano, mentre una maggior vicinanza alla perpendicolare, la
rende insicura per chi vi sale. Quando non sia possibile misurare un
muro o avvicinarsi per farlo, occorre come riferimento considerare da
una certa distanza l'altezza di un qualsiasi oggetto che si innalza
perpendicolarmente su una superficie piana ed il metodo per
calcolarla è facie per coloro che conoscono bene la matematica. Qui
è ancora una volta evidente che coloro si occupano dei piani
militari e degli assedi alle città, dove mirano al successo, devono
aver studiato geometria... per quanto serve ad avere un'idea dei
principi della proporzione e della teoria delle figure simili.
»
(Polibio,
Storie)
Secondo Apollodoro di Damasco, le scale invece
dovevano oltrepassare il bordo del muro di tre piedi, cioè di circa
un m, e doveva essere di frassino, faggio, olmo o altro, purché
leggero, ma resistente. Potevano essere componibili con ogni sezione
non più lunga di 12 piedi, si che i montanti della seconda scala
andavano inseriti in quelli della prima, quelli della terza tra
quelli della seconda e così di seguito. Le estremità inferiori
andavano poi fissate ad una trave circolare lunga 15 piedi, fissata
al suolo davanti alle mura e si doveva sollevare la scala a gran
velocità con corde e funi, arte in cui i legionari erano
versatissimi. Nessuno poteva uguagliare le manovre dei legionari sia
in precisione che in velocità.

SONO ANCORA VISIBILI I RESTI
DELL'ENORME RAMPA D'ASSEDIO CHE COSTRUIRONO I ROMANI NELLA CONQUISTA
DI MASADA
RAMPA D'ASSEDIO
La
rampa d'assedio fu utilizzata dai legionari romani durante numerosi
assedi di città poste in luoghi particolarmente elevati (come Masada
e nella Battaglia di Avarico). Era una struttura costituita da
tronchi di legno, pietre e terra messe insieme dai legionari, con la
quale si raggiungeva l'altezza delle mura. Su questa rampa potevano
essere poi poste torri e macchine d'assedio per la conquista della
città nemica.

E' menzionata durante l'assedio di
Atene dell'87-86 a.c. quando Lucio Cornelio Silla demolì il grande
muro che conduceva da Atene al Pireo, utilizzandone le pietre, il
legname e la terra, per la costruzione di una serie di
rampe.
«....Quando
le rampe cominciarono a crescere, Archelao, generale di Mitridate,
eresse delle torri a quelle contrapposte, e pose la maggior quantità
possibile di artiglieria su di loro. .... E mentre Silla stava
creando la sua rampa d'assedio alla giusta altezza presso il Pireo,
cominciò a piazzarvi sopra tutta una serie di macchine d'assedio. Ma
Archelao cominciò a demolire la rampa portando via la terra, i
Romani per lungo tempo non avevano sospettato nulla. Improvvisamente
la rampa crollò. Intuito rapidamente lo stato delle cose, i Romani
ritirarono le loro macchine e riempirono di terra la rampa e,
seguendo l'esempio del nemico, iniziarono loro stessi a scavare sotto
le mura avversarie. Gli uomini, scavando sotto terra, si incontrarono
tra gli opposti schieramenti e combatterono con spade e lance,
sebbene al buio. E mentre ciò accadeva, Silla cominciò a martellare
le mura nemiche anche con quegli arieti che erano stati posti in cima
alle rampe, salvo che una di queste cadde a terra. Poi si affrettò a
bruciare la torre vicina e riversò un gran numero di dardi di fuoco
contro di essa, ordinò poi ai suoi soldati più coraggiosi, di
salire sulle scale d'assedio. Entrambe le parti combatterono con
coraggio, ma la torre fu bruciata. »
(Appiano,
Guerre mitridatiche)

I CAVALLI DI FRISIA ROMANI O GRANDI
TRIBOLI, LA STRUTTURA ANTI CARRO DELL'EPOCA
Giulio Cesare, durante la conquista
della Gallia, nel 52 a.c., giunto presso la città di Avarico, pose
il campo base di fronte alla città dove i fiumi e la palude
consentivano solo uno stretto passaggio, e cominciò a costruire un
ampio terrapieno di fronte alle mura (Murus gallicus) nemiche,
insieme alle vineae e due torri d'assedio:

« Al grandissimo valore dei soldati
romani venivano opposti espedienti di ogni genere da parte dei Galli
Essi, infatti, con delle corde deviavano le falci murali e dopo
averle assicurate le tiravano dentro toglievano la terra sotto il
terrapieno con gallerie, con grande abilità poiché nel loro paese
esistevano grandi miniere di ferro avevano inoltre costruito delle
torri in legno a diversi piani lungo tutte le mura e le avevano
coperte di pelli e con frequenti sortite di giorno e di notte davano
fuoco al terrapieno o assalivano i legionari impegnati a costruire le
loro torri le sopraelevavano per eguagliare le torri dei Romani,
tanto quanto il terrapieno era innalzato giornalmente con legni
induriti dal fuoco, con pece bollente o sassi pesantissimi
ritardavano lo scavo delle gallerie e impedivano di avvicinarle alle
mura. »
(Cesare,
De bello Gallico)
I
legionari, nonostante il pungente freddo e le forti piogge,
riuscirono a costruire nei primi 25 giorni di assedio, un terrapieno
largo quasi 100 m e alto quasi 24 m, di fronte alle due porte della
cittadella. Cesare, era riuscito ingegnosamente a raggiungere il
livello dei contrafforti, tanto da renderli inutili per la difesa
degli assediati.
SAMBUCA
La
sambuca fu inventata da Eraclide di Taranto attorno al III secolo
a.c., ed era una specie di scala mobile a forma di ponte volante che
serviva per scalare le mura. Essa consisteva in una torre d'assedio
trasportata tra due navi affiancate. Condotta dalle navi sotto le
mura delle città nemiche, i legionari poggiavano la torre alle mura
per poi scavalcarle con un ponte levatoio manovrato da corde. Venne
chiamata sambuca in quanto una volta innalzata assomigliava allo
strumento musicale chiamato appunto sambuca.

I Romani iniziarono ad usarla dopo le
guerre pirriche del 280-275 a.c. Sappiamo pure che venne usata dai
Romani negli anni 214-212 a.c., dal console Marco Claudio Marcello
durante l'assedio di Siracusa difesa dal grande Archimede. Si
racconta che i Romani diedero l'assalto alle mura siracusane con
tutti i mezzi a loro disposizione, tra cui torri d'assedio, arieti,
vineae e pure le sambuche:
«
...quando i Romani tentavano di sollevare le sambuche, Archimede
ricorreva a macchine che aveva fatto preparare lungo il muro e che,
di solito invisibili, al momento del bisogno si levavano minacciose
al di sopra del muro e sporgevano per gran tratto con le corna fuori
dai merli. Queste potevano sollevare pietre del peso di dieci talenti
e anche blocchi di piombo. Quando le sambuche si avvicinavano,
facevano girare con una corda nella direzione richiesta l'estremità
della macchina e mediante una molla scagliavano una pietra. Ne
seguiva che non soltanto la sambuca veniva colpita ma pure la nave
che la trasportava e i marinai correvano estremo pericolo.
»
(Polibio,
Le Storie) e ancora:
«
Dopo aver posto una scala, larga quattro piedi, da risultare alta
come le mura, e collocata ad una giusta distanza da queste, ne
avevano chiuso i fianchi a sua protezione; l'avevano posta in modo
orizzontale sulle fiancate adiacenti tra loro delle navi affiancate,
molto sporgenti rispetto ai rostri. Alla sommità degli alberi erano
poste delle carrucole con funi, per cui quando era necessario,
legavano le funi all'estremità superiore della scala, e poi le
tiravano con le carrucole, le tiravano da poppa. Altri uomini, stando
a prua, cercavano di assicurare la macchina così innalzata,
puntellandola alla sua base. Servendosi quindi delle file dei remi,
poste sulle due fiancate esterne, avvicinavano le navi a terra e
provavano ad appoggiare la scala al muro. In cima alla scala, era
posto un tavolato protetto su tre lati da graticci, dove salivano
quattro uomini, i quali davano battaglia con il nemico posto sulle
mura, pronto ad impedire che la sambuca venisse appoggiata al muro.
Una volta riusciti ad appoggiare la scala, si trovavano spora il
livello delle mura, toglievano i graticci laterali e scendevano dal
tavolato sui fianchi, su mura e torri. Gli altri seguivano, salendo
attraverso la sambuca »

MACCHINARI DA ASSEDIO ROMANII
ARIETE
Secondo
Vitruvio, l’ariete d’assedio fu inventato dai Cartaginesi, venne
però adottato durante l’assedio romano di Cadice, alleata dei
cartaginesi, nel 205 a.c.. Il cartaginese Ceras fu il primo a
costruire una piattaforma in legno, montata su ruote con sopra una
struttura di legno ricoperta di pelli per proteggere gli uomini
addetti alla manovra. Dato che questa macchina era molto pesante e
lenta nei movimenti fu chiamata testuggine arietaria.

Fu adottata dai Romani per abbattere
porte e mura delle città talvolta dotandolo di un grosso sperone,
come un rostro. Comunque l'esercito romano lo aveva già usato per
certo nel 250 a.c., durante l'assedio di Lilibeo, durante la I Guerra
Punica:
« ...presso questa città da
entrambe le parti e avendo bloccato le zone tra gli accampamenti con
un fossato, una palizzata e un muro, cominciarono a spingere le opere
per l'assedio contro la torre situata più vicino al mare, verso il
mare libico. »
(Polibio, Storie)
I
romani, grandi osservatori, avevano però già appreso queste
tecniche d'assedio durante le guerre pirriche del 280-275 a.c.,
insieme alle torri d'assedio e le vinea. L'ariete era una grossa
trave, ricavata dal fusto di un albero, con una estremità rivestita
da una calotta di metallo che in genere aveva la forma una testa di
ariete, da cui prese il nome. Con questo macchinario si potevano
sfondare le porte di accesso delle fortezze, e pure le mura se poco
spesse.
«
esso consiste in una trave di enorme grandezza, simile ad un albero
di una nave, dove sulla punta era posto un grande rinforzo di ferro a
forma di testa d'ariete, da cui prende il nome. Attraverso un sistema
di funi, è sospeso nel punto centrale ad un'altra trave, come l'asta
di una bilancia, quindi sorretta alle due estremità da tiranti la
sostengono. Essa viene tirata indietro da un grande numero di
addetti, che poi la spingono avanti tutt'insieme, andando a sbattere
contro le mura con la punta di ferro. E non esiste torre o cinta
muraria così spessa che, se anche riesce a sopportare i primi colpi,
possa resistere sotto i continui colpi. »
(Flavio
Giuseppe, La guerra giudaica)
L'ariete veniva appeso ad un
castelletto (muscolo o testuggine), e tirando delle funi, agganciate
nella parte posteriore, esso veniva tirato indietro al massimo,
rilasciando poi le funi di colpo così che colpisse il bersaglio con
grande forza. Questa manovra veniva ripetuta continuamente fino a
distruggere l'obiettivo. Gli arieti più leggeri erano imbracciati a
mano dai soldati, o montati su carri a quattro ruote lanciati contro
le strutture degli assediati, altre volte ancora erano montati in
altre macchine come torri mobili.
Procopio
di Cesarea durante le guerre gotiche degli anni 535-553 ai tempi di
Giustiniano narra di un gigantesco ariete azionato alle corde da 50
uomini, Vitruvio di uno uno azionato da 100 uomini. ma non è il
massimo, perchè durante la III Guerra Punica, i Romani misero in
azione un ariete manovrato da 6000 uomini, al comando di un
ufficiale, che agiva con massima precisione come fosse manovrato da
un uomo solo.
Ma la cosa più interessante è che gli arieti i
romani non se li portavano appresso, per la loro proverbiale celerità
nelle guerre, viaggiavano più leggeri possibile, pertanto tutti i
macchinari da guerra venivano costruiti sul posto dai legionari
stessi, straordinari ideatori ed esecutori di strade, ponti,
acquedotti, accampamenti e macchine da guerra, utilizzando i
materiali più vicini alla città assediata.
FALCE
MURALE
La
falce murale (Falx muralis), o Gancio d'Assedio, era una macchina
appunto d'assedio, consistente in una lunga pertica o asta, a cui era
fissato un grosso uncino di ferro tagliente, talvolta anche due. Il
veloce movimento rotatorio, sia longitudinale che trasversale,
prodotto manovrando delle corde, permetteva di togliere la calce tra
i mattoni o tra i massi delle mura, o di far crollare le travi di
legno delle palizzate degli accampamenti.
Si sa che venne usata
durante gli assedi di Avarico, nel 52 a.c. tra l'esercito romano di
Giulio Cesare e l'esercito gallico dei Biturigi:
«
Al grandissimo valore dei soldati romani venivano opposti espedienti
di ogni genere da parte dei Galli Essi, infatti, con delle corde
deviavano le falci murali e dopo averle assicurate le tiravano
dentro, toglievano la terra sotto il terrapieno con gallerie, con
grande abilità poiché nel loro paese esistevano grandi miniere di
ferro, avevano inoltre costruito delle torri in legno a diversi piani
lungo tutte le mura e le avevano coperte di pelli e con frequenti
sortite di giorno e di notte davano fuoco al terrapieno o assalivano
i legionari impegnati a costruire le loro torri le sopraelevavano per
eguagliare le torri dei Romani, tanto quanto il terrapieno era
innalzato giornalmente con legni induriti dal fuoco, con pece
bollente o sassi pesantissimi ritardavano lo scavo delle gallerie e
impedivano di avvicinarle alle mura. »
(Cesare,
Commentarii de bello Gallico)
Venne
usata pure nell'assedio di Alesia, sempre del 52 a.c,, tra i romani
di Giulio Cesare e i galli di Vercingetorige ma pure nel 54 a.c.,
quando un legato di Cesare, Quinto Tullio Cicerone, dovette
difendersi a Namur, dall'assedio di Ambiorige, re della Gallia
belgica. L'assedio fu tolto alla notizia dell'arrivo di Cesare; e gli
Eburoni, in un assalto al campo romano, furono completamente
sconfitti. Anche Polibio, nelle Storie, ne descrive l'uso
nell'assedio romano ad Ambracia:
«
Gli etoliani assediati dal console Marco Fulvio offrivano una certa
resistenza e mentre gli arieti battevano vigorosamente sulle mura, ed
i lunghi pali con i loro ganci di ferro strappavano le mura,
tentarono di inventare macchine in grado di sconfiggerli, facendo
cadere pesanti pietre e pezzi di quercia grazie a leve addosso agli
arieti; ed attaccando ganci in ferro sugli arpioni trascinandoli
all'interno delle mura, in modo che i pali a cui erano attaccati si
rompessero sulle merlature, conquistando quindi questi ganci
»
(Polibio,
Storie)
MUSCOLO
Il
muscolo (musculus) era una struttura realizzata interamente in legno.
di forma quadrata o circolare a seconda dei bisogni, con una tettoia
a doppio spiovente e a multistrato per prevenirne la distruzione ad
opera di pesanti proiettili o del fuoco. Era infatti composta di
mattoni e sassi cementati con della malta, coperti di cuoio ripiegato
e poi ancora da materassi di lana, in pratica una capanna spostata
con un sistema di rulli. Veniva utilizzato dai legionari per
avvicinarsi alle mura di un fortino o di una città evitando così
armi da tiro o da getto degli assediati. Infatti il muscolo fungeva
da riparo mentre i soldati romani intaccavano le fondazioni delle
mura o colmavano il fossato per permettere l'uso della rampa
d'assedio.

Plinio il Vecchio racconta che il nome
del musculus deriverebbe da un animaletto marino uso accompagnarsi
alle balene: il "topo marino", quel che oggi chiamiamo il
Pesce pilota. Giulio Cesare nel suo De bello civili ne parla con
precisione:
«
Cominciarono a costruire un muscolo lungo sessanta piedi, fatto di
travi dello spessore di due piedi, del quale muscolo questa era la
forma. Si posano al suolo due travi della stessa lunghezza e distanti
fra loro quattro piedi e vi si inseriscono perpendicolarmente
colonnette alte cinque piedi. Si uniscono l'una all'altra tali
colonnette per mezzo di cavalletti leggermente inclinati in modo da
poter collocare su di essi le travi destinate a formare il tetto del
muscolo. Le travi disposte sopra questi cavalletti hanno lo spessore
di due piedi e sono tenute in sede mediante lamine e chiodi. Ai bordi
del tetto del muscolo e alle estremità delle travi si piantano
regoli di forma quadrata larghi quattro dita per impedire lo
slittamento dei mattoni che dovranno essere sistemati sopra il
muscolo stesso. Munita così di un tetto a doppio spiovente e
costruita metodicamente appena le travi sono collocate sui
cavalletti, la struttura viene coperta di mattoni e di malta per
difenderla dal fuoco lanciato dalle mura. Quindi si stendono pelli di
cuoio sui mattoni per impedire che l'acqua eventualmente immessa
attraverso condotte disgreghi i mattoni. Coprono poi le pelli di
materassi in modo che non siano danneggiate a loro volta dal fuoco e
dalle pietre. ricorrendo a quel congegno che si utilizza per le navi,
cioè rulli sottoposti al muscolo, lo accostano alla torre dei nemici
in modo da farlo combaciare con le mura. »
(Cesare,
De bello civili)
Il
musculus fu solo una delle tante macchine da assedio realizzate
dall'esercito di Cesare durante l'Assedio di Marsiglia del 49 a.c.,
voluta dallo stesso Cesare che nel campo delle innovazioni era un
maestro. In realtà i romani conoscevano delle armi da assedio
elleniche fin dal III secolo a.c., quando le Guerre Puniche resero
necessari i mezzi ossidiali (di assedio). Fu infatti nel 250 a.c.,
durante l'assedio di Lilibeo, che i romani fecero ampio uso delle
armi da assedio. Purtroppo Polibio, che ne narrò la storia, non si
soffermò sui macchinari usati dagli assedianti.
Da un punto di
vista funzionale, il musculus era simile alla vinea ma più elaborato
e resistente, che veniva spostato verso la struttura fortificata
nemica grazie ad un sistema di rulli, come fosse una nave. Poteva
essere anche utilizzato prima di una torre d'assedio, quando doveva
essere colmato un fossato o costruita una rampa d'assedio. Doveva
pertanto poter resistere sotto i colpi degli assediati, come grossi
macigni o liquidi bollenti come la pece incendiata. Sappiamo da
Cesare che durante l'assedio di Marsiglia ne furono impiegati alcuni,
le cui dimensioni erano di circa 60 piedi di lunghezza (18
m).
PLUTEO
Il
pluteo era un piccolo riparo mobile, dotato di tre ruote, che poteva
avere forma ad angolo retto o ricurva. Era normalmente in legno,
ricoperto da pelli per limitare il rischio di incendiarsi. Le tre
ruote davano agli assedianti una grande manovrabilità sotto le mura
avversarie. Ce ne scrive Cesare nell'assedio di Marsiglia del 49 a.c.
durante la guerra civile.

Il pluteo aiutava ad avvicinare
macchine d'assedio più grandi per abbattere o assalire le mura
nemiche, oppure veniva usato come riparo fisso come accadde durante
la conquista della Gallia del 51 a.c., quando Cesare puntò verso la
regione che era appartenuta ad Ambiorige, per razziarla, o ancora a
protezione del porto di Brindisi nel tentativo di bloccarvi Gneo
Pompeo Magno:
«
Cesare, temendo che Pompeo non giudicasse opportuno lasciare
l'Italia, decise di bloccare il porto di Brindisi. dove l'imboccatura
del porto era più stretta fece gettare su entrambe le rive un
terrapieno piazzava poi sul prolungamento della diga coppie di
zattere di trenta piedi per lato sul davanti ed ai due lati le
proteggeva con graticci e plutei, mentre con quattro zattere faceva
innalzare due torri a due piani, per difendersi meglio dall'assalto
delle navi e degli incendi. »
(Cesare,
De bello civili)
e
poi:
«
Al grandissimo valore dei soldati romani venivano opposti espedienti
di ogni genere da parte dei Galli Essi, infatti, con delle corde
deviavano le falci murali e dopo averle assicurate le tiravano dentro
toglievano la terra sotto il terrapieno con gallerie, con grande
abilità poiché nel loro paese esistevano grandi miniere di ferro
avevano inoltre costruito delle torri in legno a diversi piani lungo
tutte le mura e le avevano coperte di pelli e con frequenti sortite
di giorno e di notte davano fuoco al terrapieno o assalivano i
legionari impegnati a costruire le loro torri le sopraelevavano per
eguagliare le torri dei Romani, tanto quanto il terrapieno era
innalzato giornalmente con legni induriti dal fuoco, con pece
bollente o sassi pesantissimi ritardavano lo scavo delle gallerie e
impedivano di avvicinarle alle mura. »
(Cesare,
De bello Gallico)
Un
altro esempio di rampa d'assedio è quella descritta a Masada dove
Flavio Giuseppe narra che per raggiungere la fortezza, ne fu
costruita una gigantesca, alta 200 cubiti tra terra e pietre, oltre a
50 cubiti di una piattaforma in legno (per un totale di oltre 110 m),
e larga 50, a sua volta sormontata da un'imponente torre d'assedio.

TORRE MOBILE DA ASSEDIO
TORRE MOBILE o ELEPOLO

Enorme macchina da guerra di figura
quadrata. La sua costruzione era una unione di grosse travi che
formavano come molte torri poste le une sopra le altre, di forma che
la prima era più grossa della seconda questa della terza e così le
altre diminuendo. Tutta questa macchina posava sopra delle ruote
proporzionate al peso della macchina.
Era un’alta struttura di
legno a più piani, montata su ruote, con scale interne che portavano
ai vari livelli. Potevano essere rivestite in ferro o in materiale
ignifugo. Affinchè fossero stabili al massimo, avevano base quadrata
e si restringevano in altezza, in modo che l'area della piattaforma
superiore era pari ad 1/5 della base. La torre veniva accostata alle
mura della città assediata per innalzare i soldati a livello delle
mura, pertanto doveva essere superiore all'altezza delle mura della
città assediata.
Ne consegue per i costruttori delle
torri, conoscere l'altezza delle fortificazioni avversarie. In cima
vi era invece un "ponte levatoio" che permetteva l'accesso
sulle mura Esse erano trainate da buoi e con alcune pareti rivestite
con pelli per proteggersi dai dardi nemici, ed erano anche una
copertura per le truppe che la spingevano e per quelle che la
seguivano dietro. Dalla sua sommità si lanciavano frecce, dardi
incendiari e pietre sui difensori per cercare di allontanarli dalle
mura. Calando, quindi, un ponte sui parapetti antistanti, gli
assedianti tentavano di entrare nella città fortificata.
Le
torri più grandi avevano nella parte inferiore un ariete per aprire
un varco nelle mura, impegnando così i soldati nemici sia nella
parte inferiore che nella parte superiore delle mura. Si hanno
diverse notizie del loro uso:
- Venne usata a Selinunte dai
Cartaginesi per l'assedio della città 409 a.c..
- Esse potevano
raggiungere altezze considerevoli, il greco Diade, architetto di
Alessandro Magno, nel 330 a.c., ne realizzò di diverse misure fino
ad un'altezza massima di 120 cubiti (53 metri).
- I romani le
usarono nell'assedio di Numanzia nel 133 a.c.
- Ancora i romani le
usarono nell'assedio di Avarico del 52 a.c.
- e nell'assedio di
Gerusalemme nel 70.
- Ancora i romani le usarono a Masada nel 74
costruendone una di 60 cubiti (26 m) munita anche di catapulte,
baliste ed un grande ariete.

CORVO
Macchina
bellica d’assedio in uso presso Greci e Romani. Era costituita da
una struttura in legno su ruote per essere trasportata. ne emergeva
una trave, che poteva muoversi in senso verticale o ruotare in
orizzontale.
Ad una estremità della trave era collocato un grosso
uncino, come il becco di un corvo, con cui si potevano abbattere
mura, palizzate o afferrare e tirare a sé carri o macchine
nemiche.
CORVO
FALCIATORE
Un
tipo particolare di corvo era quello detto falciatore, che agendo con
un movimento orizzontale, falciava i nemici, che si trovavano a
difendere una muraglia.

CORVO D'ABBORDAGGIO

Si chiamava ancora corvo (corvus), un
congegno di abbordaggio navale utilizzato dai Romani nelle battaglie
navali della I Guerra Punica contro Cartagine.
Nelle
Storie, Polibio lo descrive come una passerella mobile larga 1,2 m e
lunga 10,9 m, con un piccolo parapetto sui due lati.
Il ponte era
dotato di uncini alle estremità che agganciavano la nave nemica,
consentendo alla fanteria di combattere come sulla terraferma.
La
nuova arma fu ideata per compensare la mancanza di esperienza in
battaglie fra navi e consentì una tecnica di combattimento che
permetteva di sfruttare la conoscenza delle tattiche di combattimento
terrestri in cui Roma era maestra.

L'arma fu provata per la prima volta
nella battaglia di Milazzo, la prima vittoria navale romana; e
continuò ad essere provata negli anni successivi, specialmente nella
dura battaglia di Capo Ecnomo, combattuta nel 256 a.c. fra Roma e
Cartagine.
"Le
due squadre dei consoli, infine si lanciarono al soccorso di quelli
che erano in pericolo e che riuscivano a resistere solo per il timore
che i punici avevano dei "corvi" "
In
seguito, con la crescita dell'esperienza romana nella guerra navale,
il corvo fu abbandonato a causa del suo impatto sulla navigabilità
dei vascelli da guerra.
OSSERVATORIO
Quasi
sempre usati durante i numerosi assedi sostenuti dagli eserciti
romani nei secoli, e si trattava in sostanza di un posto di
osservazione molto elevato, costruito con il medesimo principio delle
scale moderne, ovvero in più tronconi tra loro congiungibili, in
modo da allungarsi a piacimento. Tale strumento permetteva di
valutare i movimenti della città assediata, lo spessore delle mura,
l'entità delle truppe assediate, ecc. I particolari costruttivi sono
elencati da Apollodoro di Damasco nella sua opera sulle macchine da
guerra.

TESTUGGINE
La
testuggine (testudo) era una macchina che permetteva agli assedianti
di avvicinarsi alle mura nemiche per demolirle, protetti da questa
struttura mobile.

Era di solito montata su ruote, oltre
ad essere costruita con robuste travi in legno inclinate e protette
da un tavolato con uno strato di argilla, per evitare che massi,
tronchi, pece infuocata o olio bollente, lanciati dagli assediati,
potessero danneggiare la struttura e i soldati. L'estremità
inferiore della struttura, opposta alle mura, era dotata di punte cje
la ancoravano al terreno.
EMBOLON
Era
un tipo di testudo a rostro, a forma di prua di nave, che serviva in
caso di assedi di città o fortezze che si trovavano su pendii
particolarmente ripidi a garantire una migliore protezione agli
assedianti. Erano strutture più resistenti in caso di lancio sopra
le stesse di massi, pietre e così via. Di questo tipo di arma se ne
fece largo uso durante la conquista della Dacia, come ben
testimoniato sulla Colonna Traiana durante i vari assedi alle
cittadelle daciche ed alla loro capitale Sarmizegetusa
Regia.
TESTUDO
ARIETATA

L'evoluzione della testuggine fu la
testudo arietata, unendo appunto testuggine e ariete. L'ariete in
questi caso era mosso su rulli o ruote, e la percussione contro le
mura nemiche era azionata tirando avanti e indietro, le funi ancorate
alla parte posteriore.
I soldati che l'azionavano erano protetti
da una tettoia coperta di pelli resistenti al fuoco. In questo modo
la parte anteriore a forma di ariete veniva sospinto contro le mura,
per creare una breccia, mentre coloro che l'azionavano, erano al
riparo da dardi e pietre nemiche.
TOLLENO

Il tolleno, in italiano tollenone, era
formato da due travi di cui una posta verticale e l'altra orizzontale
appoggiata alla prima attraverso un montante girevole, al cui capo
era ancorato un grosso cesto dove erano posti alcuni armati.
Questi
venivano sollevati, facendo forza a mezzo di funi attraverso altri
armati lasciati a terra, in modo da tirare verso il basso la parte
posteriore della macchina d'assedio in questione, oltre a fare in
modo di ruotare in direzione ed altezza la cesta posta al capo
opposto. Sembra fu citato per la prima volta da Enea Tattico nella
sua Poliorketika nel IV sec. a.c.

VINEA
L'uso
di questo macchinario d'assedio da parte dei romani risale al 502
a.c., agli inizi della Repubblica, in occasione dell'assedio di
Suessa Pometia, un'antica città del Lazio. Vegezio, la descrive come
una tettoia mobile alta circa 7 piedi, larga 8 piedi e lunga 16 (2,1
× 2,4 × 4,8 m), riparata sui lati da vimini intrecciati.

Unendone diverse tra loro, si poteva
formare un corridoio coperto sia ai lati che sopra per proteggere i
soldati assedianti sotto le mura nemiche. Poichè però gli
assedianti vi gettavano torce o addirittura pece greca, sovente
venivano coperte con pelli o lana o frasche verdi o coperte bagnate.
Alla base poi avevano dei pali appuntiti per poterli fissare al
terreno quando i soldati che li trasportavano avevano bisogno di
riposarsi.
Tito Livio narra che durante l'assedio di Sagunto del
219 a.c., Annibale le utilizzò per proteggere i suoi soldati dai
lanci degli assediati ed avvicinare un ariete alle mura. Giulio
Cesare le descrive diffusamente durante l'assedio di Avarico, del 52
a.c., quando dopo 27 giorni, profittò di una fitta pioggia, che
avrebbe pertanto vanificato ogni tentativo di incendio, per
avvicinare una delle torri d'assedio alle mura della città,
nascondendo i soldati all'interno delle vineae, per irrompere poi
sugli spalti della città gallica degli Biturigi.
Ma anche
Sallustio racconta dell'uso delle "vigne" nelle guerre
giugurtine, durante i vari assedi operati dai romani.

LE MACCHINE DA ARTIGLIERIA
Sappiamo che le macchine di artiglieria
(tormenta) servivano al lancio di proiettili anche incendiari (dardi,
frecce, giavellotti, pietre e massi), atti a perforare le difese
nemiche, agevolandone l'assalto, o nel caso degli assediati, la
difesa. Esse vennero usate:

- da Marco Furio Camillo, in vista
della guerra da condurre contro i Volsci di Anzio;
- nella I
Guerra Punica, contro le città cartaginesi in lunghi assedi di loro
potenti città, difese da imponenti mura e dotate di artiglieria - da
Cesare durante la conquista della Gallia tra il 58 ed il 52 a.c.;
-
da Germanico nella campagna del 16 d.c. contro i Germani;
- e a
Corbulone in quella del 62 contro i Parti,
Queste
macchine erano di tipo nevrobalistico o a torsione, poiché
utilizzavano come propulsore il rapido svolgimento di una matassa, di
solito una corda di fibre, nervi, tendini o criniere di
cavalli.
Addetti alle macchine da lancio erano poi i ballistarii,
i quali, grazie ad un'elevata specializzazione, appartenevano a quel
gruppo di legionari privilegiati, chiamati immunes. Erano alle
dipendenze di un Magister ballistarius (almeno dal II sec. d.c.),
coadiuvato da un optio ballistariorum (attendente al servizio del
comandante) e ad un certo numero di doctores ballistariorum
(sotto-ufficiali di complemento). Ogni legione, infine, poteva
disporre fino a circa 60 tra catapulte e baliste.

BALISTA O BALLISTA
Dal
latino ballista, dal greco ballistēs, da ballo "lanciare",
macchina d'assedio inventata dai Greci e perfezionata dai Romani. Fu
impiegata, soprattutto negli assedi, per lanciare giavellotti,
pietre, frecce o dardi infuocati, palle di piombo, usufruendo dello
scatto di un arco di grandi dimensioni.

Le prime baliste furono di legno,
tenuto da lastre e chiodi di ferro, con un cursore in alto, in cui
venivano caricati i bulloni o le pietre. La struttura della balista
era mobile, entro certi limiti, sia nel piano orizzontale che in
quello verticale, in modo tale che il lancio del proiettile poteva
essere orientato. L’arco della balista era costituito da due aste
di legno, fissate a un telaio posto su un cavalletto.
Le due aste
tenevano due fasci di fibre intrecciate, fatte di tendini di animale,
che fungevano da propulsore, essendo tese al massimo. I perni di
bronzo o ferro, che assicuravano la torsione delle corde, erano
regolati da perni e fori periferici, che potevano essere regolati a
seconda delle condizioni meteorologiche. Una robusta corda,
agganciata alle due aste, veniva tesa e fissata all’ estremità di
un carrello mobile, trattenuta da un grilletto. Il giavellotto, o
altro, era collocato in una scanalatura del carrello, cosi che,
sganciando di colpo dal perno la corda tesa dalle due aste, veniva
spinto violentemente in avanti.
La sua portata massima era di
oltre 460 m, ma il raggio di precisione molto meno: un giavellotto o
dardo fino a m. 350; una pietra di 800 g. fino a m. 180. La
leggerezza dei colpi della Ballista non ha avuto il successo delle
pietre gettate dagli onagri più tardi, trabucchi, o mangani, pesanti
fino a 200-300 libre (90-135 kg).

Fu utilizzata da Giulio Cesare durante
la conquista della Gallia e per sottomettere la Gran Bretagna:
Durante l'assedio di Alesia in Gallia, nel 52 a.c., Cesare l'aveva
quasi completamente circondato la città assediata da 14 miglia (21
km) di trincea riempita di acqua deviata dal fiume locale, poi
un'altra trincea, poi una palizzata di legno e torri, poi l'esercito
romano accampato, poi un'altra serie di palizzate e trincee per
proteggerle da eventuali forze galliche in soccorso. All'esterno
aveva fatto collocare tante piccole baliste manovrate da cecchini
sulle torri, oltre ad altre truppe armate con archi o fionde. Dopo
Giulio Cesare, la balista diventò permanente nell'esercito romano,
costantemente migliorata dagli ingegneri militari.

Si sostituirono le parti in legno col
metallo, creando una macchina più piccola e leggera, capace di una
potenza maggiore, dal momento che il metallo non si deforma come il
legno, e richiede meno manutenzione, anche se vulnerabile alla
pioggia. Ammiano Marcellino (IV sec.) ricorda che si trattava di
macchine da lancio atte al lancio dei giavellotti. I dardi potevano
risultare di piccole dimensioni (20–22 cm) fino a raggiungere quasi
i due metri, come degli autentici giavellotti. La loro gittata era
stimata in 350 m circa.
La balista, pur avendo principi analoghi
anche in termini di costruzione a quelli delle catapulte, fu
progettata per il lancio di pietre o massi pesanti (fino a oltre 45
kg), non invece per tiri di precisione. Flavio Giuseppe narra
dell'assedio di Gerusalemme in cui un proiettile in pietra del peso
di un talento (33 kg) fu lanciato ad oltre due stadi di distanza (377
m).
Sempre Flavio Giuseppe, nel raccontare durante Nell'assedio di
Iotapata ricorda episodi terribili:
«
tra gli uomini che si trovavano sulle mura attorno a Giuseppe un
colpo staccò la testa facendola cadere lontano tre stadi. All'alba
di quel giorno una donna incinta, appena uscita di casa, fu colpita
al ventre e il suo piccolo venne scaraventato a distanza di mezzo
stadio, tanto era la potenza della balista. Tutto il settore delle
mura, dinanzi al quale si combatteva, era intrinso di sangue, e lo si
poteva scavalcare attraverso una scalata sui cadaveri. »
(Giuseppe
Flavio, La guerra giudaica)

CATAPULTA
Il nome è la forma
latinizzata del greco antico katapeltes, da kata ( contro) e Pelta
(scudo): il pelta è il piccolo scudo di legno e cuoio dei peltasti,
della fanteria greca.. Sembra sia stata inventata nel 399 a.c. a
Siracusa sotto il tiranno Dionisio I.

Ma in realtà i Romani chiamarono con
questo nome la macchina atta in genere a lanciare soprattutto rocce e
pietre. Fu un'arma complessa, in legno, con qualche parte costruita o
rivestita in metallo, con corde o tendini di animali come tensori.
Infatti all'inizio funzionarono a tensione, in seguito a torsione,
che davano una spinta molto maggiore.
Mentre la Ballista serviva a
lanciare frecce e giavellotti, lunghi da 4 a 6 m., la catapulta,
macchina d’ assedio, era usata per scagliare grossi sassi (anche di
un quintale), proiettili o sostanze infiammabili, con molta violenza.

Era costituita da un braccio di legno
che terminava con un secchio contenente il proiettile. L’altra
estremità era inserita in corde ritorte che fornivano al braccio la
propulsione.
Le catapulte venivano solitamente assemblate o
costruite totalmente sul luogo dell’ assedio, impiegando il legno
della zona. Il che fa comprendere la capacità ingegneristica ed
esecutiva dei soldati romani.
Originariamente infatti la catapulta
scagliava dardi capaci di trapassare le corazze meno robuste. I
Romani utilizzarono la catapulta (il lithobolos greco), la macchina
per lanciare pietre, anche in modelli più piccoli, come l'Onagro.
Il
Palintonon era una macchina di 3 tonnellate, caricato a sassi di 13
kg, (usato pure nell'assedio di Gerusalemme), ma poteva essere
caricata solamente a dardi o sassi, mentre il cucchiaio dell'Onagro
permetteva l'utilizzo di munizioni incendiare deflagranti, oltre ad
essere di più facile costruzione.
Inoltre l'onagro consentiva un
tiro a parabola particolarmente efficace per scavalcare le mura delle
città.
Catapulta
tensionale
Le
prime catapulte furono tensionali, derivanti dal gastraphetes (una
balestra rudimentale): una parte sotto tensione propelle il braccio
che scaglia il proiettile, simile ad una balestra gigante.
Catapulta
torsionale
La
balista fu la prima catapulta torsionale, che sfruttava l'elasticità
di torsione prodotta da fasci di fibre elastiche. A questo fine erano
usati tendini, crini e anche capelli. Anche gli onagri, costruiti dai
Romani, sfruttavano lo stesso principio. Queste armi avevano un
braccio che terminava con una fionda contenente il proiettile.
L'altra estremità del braccio era inserita in corde o fibre che
venivano torte (nevrobalistica), fornendo al braccio la forza
propulsiva. Il sistema torsionale è assai più efficace del sistema
tensionale, ma più complesso.

CHIEROBALISTA
Verso
il 100 d.c. venne progettata la Cheirobalista, uno scorpione di
dimensioni minori ma quasi interamente in metallo, matasse incluse,
rivestite da due cilindri di bronzo.

Il metallo permetteva di ridurre le
dimensioni senza penalizzare le prestazioni dell'arma. Di quest'arma
vennero costruite anche versioni trasportabili a mano delle
dimensioni di una balestra: le manuballiste.
Una
ricostruzione sperimentale effettuata in un documentario della BBC,
la TV inglese , dimostrò che i Romani potevano sparare anche undici
proiettili al minuto, quasi quattro volte la velocità di una
Ballista ordinaria. Una carica con espulsione a ripetizione che
reinserisce a usa volta la carica. Il tipo di materiale permetteva
infatti di ridurre le dimensioni senza penalizzare le prestazioni
dell'arma, dotata di una precisione micidiale. Di quest'arma vennero
costruite anche versioni trasportabili a mano delle dimensioni di una
balestra (solo il meccanismo era differente) battezzate manuballiste.

MANUBALLISTA
La
Manuballista (per alcuni autori la stessa chierobalista, per latri
diversa), ma detta pure arcoballista, era una versione portatile
della tradizionale Ballista.

Si narra che attorno all'anno 100, il
famoso architetto delle campagne daciche di Traiano (e poi di
Adriano), Apollodoro di Damasco, progettò un nuovo tipo di
scorpione, riducendo alcune parti in legno, pesanti ed ingombranti,
con strutture in ferro con potenza di lancio superiore.
Realizzata
quasi interamente in legno e molto più piccola, aveva poco metallo,
anche col vantaggio di essere meno costoso. Non era la Gastraphetes
antica, ma l'arma romana, con le stesse limitazioni però della
Gastraphetes. Secondo altri invece fu progettata da Erone di
Alessandria intorno al 100 sempre con dardi più piccoli e di
metallo.
CARROBALISTA
La
carrobalista era una macchina da lancio posta su un apposito carro a
due ruote, trainato da cavalli, impiegata sia negli assedi che nelle
battaglie campali in quanto facilmente spostabile durante la
battaglia.

L'uso della macchina era basato
sull'elasticità dei materiali e la tensione delle corde, esattamente
come l'arco, la balista, lo scorpione, la catapulta e l'onagro. Si sa
che venne introdotta nel I sec. a.c., ed appare come un'evoluzione
della balista, che poteva essere montata su un traino e spostata
tramite muli.
La carrobalista sfruttava la potenza di ampie molle
di bronzo per sparare lunghe frecce oppure "ghiande" di
piombo (proiettili cosiddetti per la forma a ghianda). Era manovrata
complessivamente da 11 uomini ed era costituita da quattro parti
principali: il calcio dove si trovava il congegno di scatto, il
telaio dove erano le corde e i bracci di metallo, un sostegno e il
carro. Una vite di puntamento consentiva di alzare o abbassare la
traiettoria dei dardi.
Venne largamente utilizzata
dall'imperatore Traiano, prima contro i Daci di Decebalo, come si
vede nella Colonna Traiana, e poi in Mesopotamia contro i Parti. Le
carribaliste furono usate dalle centurie, con 1 carrobalista con
undici serventi, ed alla legione con 10 onagri e 55
carribaliste.
SCORPIONE
Lo
Scorpione (scorpio) fu più di un arma da cecchino che una macchina
d'assedio, essendo gestito da due soli uomini, anche se fu usato pure
negli assedi.

Arma di notevole precisione e potenza,
era particolarmente temuta dai nemici dell'Impero Romano.
Fu
l'antesignana della balestra, probabilmente ispirata dal Gastraphetes
greco, una piccola ballista portatile alimentata a dardi. Fu
inventata nel 50 a.c. con dardi lunghi 70 cm. con un lancio di
precisione a 100 metri, ma poteva arrivare, con tiro meno preciso,
fino a 400. Oppure si usavano dardi di 130 cm. con una gettata fino a
650 metri, ma con tiro meno preciso.
Quest'arma, descritta in
dettaglio da Vitruvio (20 a.c.), grande ingegnere militare romano,
come arma destinata al lancio di dardi e giavellotti, venne usata
parecchio nelle campagne in Gallia e Germania e durante l'età
repubblicana e imperiale, ogni centuria aveva scorpioni e
baliste.
Vegezio li definisce "balestre a mano". Gli
scorpioni venivano collocati in batterie su alture dominanti
distruggendo parecchi nemici.
Ne fece grande uso Giulio Cesare in
Gallia e durante l'assedio di Avarico, descrivendone la terrificante
precisione. La loro maneggevolezza permise di impiegarle anche sui
carri, prendendo così il nome di carrobalista. Sulla Colonna Traiana
se ne contano diverse.

Sembra cominciarono ad essere impiegati
nell'esercito romano nella prima metà del I sec. a.c., ovvero dal
tardo periodo repubblicano. Infatti durante la Repubblica e l'Impero
dei primi secoli, ogni legione aveva 60 Scorpio, che potevano sparare
fino a 240 frecce al minuto, o uno scorpio per centuria.
Lo
Scorpione ha principalmente due funzioni in una legione: nel tiro
teso, in cui poteva abbattere un uomo a 100 m, perforandone anche lo
scudo, o nel tiro parabolico, con distanze fino a 400 m.
Le gomene
erano generalmente costituite da crini di cavallo o da capelli,
specialmente di donne. In seguito gli ingegneri militari romani
proposero di adoperare delle molle di bronzo composte da molte
lamine.

ONAGRO
Deriva
il suo nome dall'azione ripetuta e veloce della macchina, come i
calci di un onagro, l'asino selvatico. Una macchina bellica da
assedio, impiegata per lanciare grossi sassi o proiettili di piombo a
distanza.
Era simile alla catapulta, ma con
traiettoria di lancio molto più curva, che poteva superare ostacoli
alti e colpire i nemici dietro recinti o mura. Era inoltre impiegata
per l’ indebolimento delle fortificazioni o contro truppe d’attacco
o artiglieria nemica. Era un telaio orizzontale con due travi di
quercia, alla cui estremità anteriore veniva fissato un telaio
verticale di legno massiccio, e al centro un palo terminante in un
secchiello appeso a funi in cui si poneva il proiettile.

A volte il telaio era fornito di ruote,
nella cui parte centrale era disposto orizzontalmente l'organo di
propulsione formato da un unico e grosso fascio di materiale elastico
(corda di canapa o lunghi capelli umani intrecciati o tendini animali
formanti una grossa corda). Il palo, orizzontale prima del lancio,
liberato dal gancio che lo tratteneva e tirato da corde, scattava in
verticale urtando una barra si che il proietto si scagliava per
contraccolpo, saliva per 40 m. e cadeva a parabola ad una distanza di
30 m.
Il peso del proiettile, secondo Vitruvio, poteva arrivare
fino a 60-80 Kg. Secondo Vegezio ogni legione recava con sé 10
onagri trainati da cavalli o buoi e sostiene che non era possibile
trovare arma più potente di questa. Era, inoltre, in grado di
abbattere oltre a cavalli e armati, anche le macchine avversarie. Ma
le macchine più grandi spesso venivano costruite sul posto oppure
portate in pezzi e montate poi sul campo di battaglia L'onagro poteva
essere di piccole dimensioni - per navi e spalti di fortificazioni -
oppure molto grande, purché le proporzioni della macchina venissero
riprodotte esattamente. Il fascio di corde poteva avere un diametro
dai 10 cm. ai 30 circa e pertanto poteva lanciare, a seconda di
questo fattore e quindi della grandezza dell'onagro, pietre sferiche
del peso fra i 4 e gli oltre 50 kg a distanze variabili fra i 600 e i
200 m.

IL CANNONE A VAPORE
Fonte
e immagine: Roman History Made Easy Durante l’assedio di Massilia
(19 aprile – 6 settembre 49 a.c.) Giulio Cesare menziona un’arma
che poteva provenire dall’arsenale di Archimede. Nel 49 a.c.,
Massilia – l’odierna Marsiglia – era la più grande città
Greca indipendente.

Circa 400 mila Greci e Galli vivevano
all’interno delle mura della più grande città a ovest di Roma, e
nonostante quasi cento anni di conquiste sia in Gallia sia in Grecia,
vari generali romani – tra cui Giulio Cesare – avevano lasciato
questo posto tranquillo.
Massilia non era una città militare, ma
un centro economico attraverso il quale passarono per 400 anni gran
parte di esportazioni e importazioni della Gallia. Questo traffico di
merci arricchì la città, che poteva quindi permettersi i migliori
sistemi di difesa acquisendoli dai Greci stessi; queste armi non
vennero testate contro gli eserciti romani fino a quando Giulio
Cesare attraversò il Rubicone. Mentre la guerra civile si espandeva,
Massilia si schierò con i pompeiani, diventando una spina nel fianco
delle linee di rifornimento di Cesare tra il Nord Italia e la
Spagna.
Per scavalcare le massicce mura di Massilia, Cesare
riferisce che il suo legato Gaio Trebonio dovette costruire strutture
alte 80 piedi (circa 25 m), e fu durante questa costruzione che le
legioni vennero attaccate dalle ballistae, che scagliavano pali di
legno lunghi 12 piedi (3-4 m) muniti di punte; questi enormi
proiettili erano in grado di penetrare quattro strati delle
protezioni che i Romani usavano per lavorare. Una normale ballista
avrebbe potuto teoricamente sparare un dardo di quel tipo, anche se
secondo la tradizione questo non successe mai; il cannone a vapore di
Archimede poteva sparare non solo palle di cannone, ma anche lunghi
pezzi di legno.
Il funzionamento di un cannone a vapore è
abbastanza semplice: si tratta di un barile di bronzo o rame –
molto simile a qualsiasi cannone a polvere da sparo – con
l’estremità chiusa posta su un fuoco. Una pietra sferica o un
proiettile di metallo viene quindi fatto entrare dalla bocca del
cannone, ed è tenuto fermo da un pezzo di legno che a sua volta è
tenuto in posizione da un altro listello di legno trasversale.
Ora
il cannone è caricato. Per sparare, viene aperta una valvola che
sparge acqua su una barra incandescente posta sul fuoco; l’acqua si
trasforma in vapore e, raggiunta una certa pressione, il listello
trasversale si spezza, rilasciando il palo di legno e il proiettile.
Essendo più leggero, il primo potrebbe finire più lontano del
secondo, e quindi poteva essere a sua volta trasformato in un’arma
con una punta di ferro.
Non
si può stabilire se fosse questo che le truppe di Trebonio si
trovarono a fronteggiare; d’altra parte un’eventualità del
genere non può nemmeno essere esclusa del tutto: il cannone a
vapore, che non aveva parti mobili, dotato di una grandissima forza,
e limitato solamente dalle scorte di acqua e proiettili a
disposizione dell’esercito, potrebbe essere stata la ragione per
cui Massilia riuscì a rimanere indipendente per molto tempo.